Ascoltando le alticce metamorfosi vocali con le quali lo stralunato cantante della Macchina dell'Amore irrora i rupestri affreschi agro-pastorali plasmati dai propri scalcagnati compagni di merende mi viene in mente l'immagine di una sorta di Peter Steele freakettone con collana di margherite appena colte profumate e sgargianti.
Un Glen Danzig bonario che anziché sprangarsi di pesi col body building si cimenta nella sacra arte dell'uncinetto e del punto croce a lume di candela.
Un Elvis Presley in un film di Kiarostami.
Un Jimbo Morrison che anziché far gargarismi con la tequila s'inebria col Tantum Verde.

O forse le mie allucinazioni uditive sono dovute alla presenza in primo piano in copertina dei piedastri di un membro del quintetto folk-bucolico teutonico. Che a guardarli pensi che per ben che vada suonino una agricola Mazurka.

Quì lo dico: detesto, dal profondo della cavità poplitea, i piedi. Di qualsivoglia lunghezza, larghezza e fattezza.

E ancor più detesto le scarpe che impudicamente ne mostrano le nerborute propaggini: le ciabatte e i sandali aperti li abolirei con decreto legge a carattere d'urgenza.

E me ne sbatto che Vincent Vega e Jules Winnfield, in uno dei discorsi più deliranti del cinema (più o meno) contemporaneo amerigano, si siano dilungati intorno alla maestria nel massaggio di essi.

Se non fosse che mal sopporto il dolore e sia un fifone D.O.C. quelli che madre-natura mi ha messo a disposizione me li sarei già mozzati da tempo.

L'odio non è dovuto all'inverecondo olezzo che nei casi più estremi riescono a produrre: la scienza nonostante anni di studio non ha ancora individuato con esattezza cosa sprigioni tale virulenta veemenza.
Ma proprio trovo esecrabile la loro forma oscenamente prepotente.

Solo per qvesto, quindi, sarebbe un disco da Uno-Fisso: manco fosse il Campobasso dei bei tempi.

Ma oggi voglio essere magnanimo e proseguirò nella DeRecenza.
Ma lo faccio solo per Voi.
Sappiatelo!

Perché aldilà del ribrezzo per mignoli e pollici è giusto sottolineare che questo manufatto pedestre propugna un suo peculiare fascino: la mia gnoranza in materia me lo fa percepire come archeo-proto-folk-rock-para-pissichedelico di natura meramente agro-pastorale.
E devo dire che mi ha letteralmente inebriato questo florilegio di chitarre meditabonde più o meno acustiche, di flauti pseudo-Andersoniani, di tastierucole para-progredite e percussioni lievi ma appropriate.

Citazione di lode accademica va al guitar-hero che possiede la medesima sapienza rifferamistica del collega conterraneo che scava menhir a sei corde negli Electric Moon, ma che diversamente dal conterraneo risulta dotato del dono della sintesi. O forse si droga solo di meno.

E poi quel cantato: sobrio ma etilico.
Placido ma risoluto.

Il fatto è che questo è un disco che non ha alcuna fretta, che spazia e girovaga tra Mondi Lontanissimi anche senza aver mai sentito gnente di Battiato.
Che invita a sedersi, anzi sdraiarsi comodamente ed assaporarlo con mestizia e serenità.
Ancor meglio se accompagnato da qualsiasi sostanza più o meno rintracciabile in natura che ne renda la fruizione libera e piena.
Personalmente ho adottato un cocktail di Vim Clorex (per aggredire le parti più rock) e polvere finissima di salnitro (per incendiare quelle più letargiche).
Per inspezire il tutto qualche ramoscello di rosmarino è la morte sua.

Ma non so effettivamente se sia il caso di consigliarvelo.
E' capace che poi vi piace.

Carico i commenti... con calma