Devo ammettere che al primo ascolto ho detto, testuali parole:
"Cazzo, questo disco è una merda, fa cagare soltanto un povero imbecille potrebbe dire che è bello!".
E l'ho riposto delicatamente nel fottuto portaCD, desideroso di non ascoltarlo mai più.

La mattina dopo, incredulo di aver buttato via 12Euro per cotanta schifezza, leggo qualcosa su internet su di loro, e provo a riascoltarlo. E la reazione migliora. Sono inesperto, dovevo prevedere che per un disco del genere non sarebbe bastato un ascolto. E così tiro avanti ad ascoltarlo, 3, 4, 5 volte, spesso cassando parte dell'ultima canzone, "Revelation", durata 18 minuti, che alla fine ti viene un po' da spararti nei maroni. Non è mica "Echoes", che si potrebbe andare avanti per mezz'ora. Bisogna precisare che i Love stavano iniziando a ripercuotere un buon successo, forti di un buon disco com'era "Love", e cominciano a essere riconosciuti per strada. Così, i Love decidono di imprimere un suono più jazzato e meno easy listening, scelta che sicuramente non li consegnerà alla storia di costume della Los Angeles anni '60.

Nello stesso anno, sugli stessi marciapiedi che camminavano i Love, incominceranno a essere cantate strane musiche, in parte nuove in parte vecchie, quelle di "Break On Through", "The End" e "Soul Kitchen". Sono 7 tracce, di ascolto spaesato. Sì perchè riuscire ad ascoltare questo album richiede un non basso livello di impegno. Non voglio pensare cosa sarà "Trout Mask Replica" e il fottuto Capitano CuoreDiBue.
Sicuramente non è un disco orecchiabile, o meglio, si può dividere l'album in due parti: quando attacca la voce di quel geniaccio fottuto di Arthur Lee, tutto diventa abbastanza semplice e coinvolgente. Ma le parti strumentali, e soprattutto la lunghissima suite "Revelation", come ho già detto in precedenza, mi lascia molto perplesso, dal 10imo minuto in avanti arrivando fino al 18esimo.

Ho gridato al miracolo, non so perchè, quando in questo pezzo Arthur Lee con voce simile a un latrato "Everybody needs somebody to love". Stai a vedere che i Blues Brother si erano ascoltati questo pezzo, ma io non posso saperlo. Ma le idee ad Arthur Lee e Brian MacLean, certamente non mancano. Per questo vediamo i brani dalle melodie più svariate e libere dai compromessi musicali, che si ergono in maniera non imponente avanzando sulle scale di suono che si vengono a creare. Ma a volte questi suono vengono a mancare, e così possiamo trovare canzoni veramente piacevoli ma mai banali, come "The Castle", che a un certo punto riprende il tema scanzonato del Vaudeville. La traccia numero 4, "Seven & Seven Is", l'unica lanciata come singolo, anticipa e non di poco le atmosfere del punk canzonatorio dei Ramones, assimilandosi a quella tradizione garage-rock propria degli anni '60, insieme a Kinks e Sonics. Cosa importante è che non esiste un vero brano da classifica, non esiste una canzone che sia completamente orecchiabile, e per questo viene adombrato completamente dall'altro lavoro dei Love, quello famoso, 'Forever Changes'. Sicuramente degne di nota anche le prima tre canzoni dell'album, "Stephanie Knows Who", "Orange Shoes" e "! Que Vida !".

È un album universale in fin dei conti che coglie tutte le sfumature degli anni '60, dalla psichedelia, al blues, al garage, al jazz (anche un po' free), con una strizzatina al pop, al folk.

È un album decisamente completo, con poche pecche. Consigliato.

Carico i commenti... con calma