Mi innamorai della voce di Lucinda Williams alcuni anni fa, quando ascoltai quasi casualmente un suo disco amaro e bellissimo dal titolo "Essence". Un pugno di canzoni autobiografiche, sofferte, emotive, seducenti dedicate al tema della perdita di un amore.
"A chi appartiene questa splendida voce che racconta la vita in un modo così struggente?", mi domandavo. Scoprii allora che Lucinda era una cantautrice americana con alle spalle mille esperienze e una mezza dozzina di dischi country-rock, incisi però in poco meno di tre decenni di carriera. Venni a sapere, inoltre, che in questo arco di tempo non indifferente aveva assorbito la polvere della strada, raccolto delusioni e scritto canzoni, non sempre in quest'ordine. Ma aldilà dei dati anagrafici, quello che ricordo di più è il fatto che non riuscivo proprio a togliere dal lettore il suo cd e che le sue melodie mi risuonavano in testa per giorni, accompagnandomi in ogni momento dall'alba al tramonto. Il fascino delle sue ballate semplici e sincere, che alternavano delicatezza e ruvidezza, era per me irresistibile. La sua voce malinconica e intensa poi sembrava davvero provenire dalle profondità del suo cuore, riuscendo a scavarti dentro con sorprendente facilità. E nonostante la sua musica si incanalasse nel solco della tradizione country-rock statunitense, Lucinda riusciva sempre ad interpretarla con una sua impronta originale, inconfondibile, che non poteva lasciare indifferenti. Da allora sono lentamente risalito indietro nella sua storia musicale, scoprendo l'esistenza di album straordinari come "Car Wheels On A Gravel Road" del 1998, e non ho più perso una sua uscita discografica che, fra alti e bassi, mi ha sempre confermato le qualità fondamentali della sua musica: calda, intima, dolceamara e sensuale.
Le mie aspettative rispetto a questo suo ultimo lavoro in studio - appena pubblicato dall'etichetta "Lost Highway Records" - erano dunque elevatissime e come spesso accade in questi casi temevo di restare deluso ascoltandolo. Invece l'ascolto non tradisce affatto, anzi… "West" conferma la verve compositiva della Williams ed è davvero un disco bellissimo, di rara profondità, capace di raccontarci interamente il cuore di questa donna, che non si nasconde, ma anzi si regala a piene mani senza timori, evocando i suoi viaggi, i suoi drammi, la sua vita. Sentimenti contrastanti in chiaroscuro affiorano così tra ballate languide ("Are You Alright?"), disperate ("Fancy Funeral") e inquiete (“Learning How To Live”), cui si contrappongono canzoni abrasive ("Unsuffer Me") e strascicate ("Wrap My Head Around That").
In ogni passaggio la sua voce è una certezza: vibrante e intensa come sempre, rifugge la banalità e sceglie la semplicità. Diretta, coinvolgente e coinvolta ci introduce lentamente in un contesto musicale ricco ed elaborato, anche grazie alla sapiente produzione di Hal Wilner. Così l'architettura musicale vede prevalentemente al centro delle canzoni la chitarra acustica, con di volta in volta felici innesti di archi, fisarmonica, hammond, Wurlitzer. E non manca chiaramente la chitarra elettrica che, però, indossa a seconda dei registri vesti altalenanti. C'è allora quella inconfondibile, raffinata ed elegante del grandissimo Bill Frisell, che è un vero piacere sentir duettare con il lamento della voce di Lucinda. Ma quando il lamento assume i contorni della rabbia, cambia anche il suono della chitarra ("Come on"), affidata in questi casi a Doug Pettibone, che si mostra più incisivo, robusto e potente per sottolineare la forza della canzone. Vengono allora in mente alcuni vecchi pezzi di un Neil Young d'annata.
Ma aldilà di ogni incerto paragone quel che colpisce di questa musicista è la sua passione femminile, che unita al tormento si traduce in musica. Ecco l'essenza della bellezza e del fascino di queste tredici canzoni, che dunque compongono non tanto un disco, quanto la vita stessa di Lucinda.
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