Arrivati ad una certa età è giusto togliersi qualche sfizio. Perchè si ha la saggezza degli anni, una forte esperienza di vita alle spalle, e non si ha più nulla da perdere. E nemmeno niente più da dimostrare. La vecchiaia non è malinconica: è liberatoria. La gioventù è faticosa (ogni giorno devi sempre dimostrare qualcosa), la vecchiaia è un lusso.

Prendete Luis Bunuel (nato a Calanda, il 22 settembre 1900) cosa aveva da dimostrare dopo l'Oscar vinto con "Il fascino discreto della borghesia" nel 1972? Niente. Di film ne aveva fatti un infinità, di belli ne ha diretti parecchi, ogni tantp è inciampato (ma a chi non capita un piccolo errore?), era stato il padre del surrealismo tout-court ("Un Chien Andalou", 1929), era appena stato riconosciuto autore a tutto tondo persino da quegli incompetenti dell'Academy, che cosa volere di più? Ma quando si arriva a 74 anni con tanta energia e tanta voglia di fare, ci si può permettere qualsiasi cosa, anche un film feroce e controcorrente come "Il fantasma della libertà".
Non ci si affanni a cogliere il senso del film, che potrebbe sfuggirvi, o che forse nemmeno c'è. "Il fantasma della libertà" è un film che va visto. E basta. D'altronde, lo stesso Bunuel definirà questo film un "felice intrattenimento", e che a girarlo si sia divertito un mondo non v'è dubbio alcuno, ogni sequenza è un inno alla gioia ed alla libertà. Solo che, a differenza di chi concepisce l'intrattenimento come tasto off del proprio ed altrui cervello, Bunuel concepiva l'intrattenimento come meticoloso lavoro professionale, come lineare opera d'arte. Concetto oggi, ahimé, caduto in disuso.

"Il fantasma della libertà" è un film, diciamo così, ad episodi. Episodi grotteschi, graffianti, anticlericali (fu Luis Bunuel che pronunciò la famosa sentenza: "Sono ateo per grazia di Dio"), taglienti. E qui, a 74 anni suonati, con la possibilità di potere dire qualsiasi cosa, Bunuel si scatena e dice tutto. Dice quello che non aveva potuto dire prima, e ribadisce, magari un pò forzatamente, ma pur sempre con arguta intelligenza, concetti già espressi in altri film. Ecco dunque, quel caleidoscopio di idee e provocazioni tipiche del più ispirato Bunuel: i soldati della Repubblica Francese assaltano la Spagna ma il popolo non vuole liberarsi dell'oppressivo potere; un ufficiale profana una tomba ma vi trova un corpo completamente integro; un uomo regala foto "compromettenti" ad un ragazzino; alcuni frati giocano a poker con dei santini; un ragazzotto si innamora della zia vecchia di faccia ma giovane di corpo; un uomo denuncia la sparizione della figlia ma non si accorge di averla lì vicino; il prefetto di Parigi, per un equivoco, viene arrestato con l'accusa di essere un "profanatore di tombe"; un uomo spara in mezzo alla folla, prima viene arrestato, poi viene liberato tra gli applausi convinti della gente.

Episodi surreali, apparentemente slegati fra loro, ma con un unico (importante) filo conduttore: la crisi della società. "Il fantasma della libertà", è quello che Bunuel tenta di scovare fra le pieghe di una società in completo disfacimento (come accadeva, con molta più linearietà, in "Il fascino discreto della borghesia"), in cui la parola libertà viene pronunciata a sproposito, e la vera libertà è una mera utopia. Nessuno è libero, tutti sono schiavi di qualcosa: chi della propria imbecillità, chi della paura della libertà, chi delle proprie drogate pulsioni, chi degli equivoci. Si direbbe, "la libertà non esiste". Per Bunuel c'è, solo che nessuno riesce ad afferrarla.
Un film che manca di omogeneità, ma, una volta tanto, non è un difetto. A difettare forse è qualche episodio, meno graffiante e meno riuscito, ma quelli belli sono veramente di altissima classe. Emblematica la sequenza del pranzo informale, col rapporto similare fra mangiare e defecare, metafora di chi confonde la libertà con la stupidità. O no? O forse non è così, forse è, come dicevo all'inizio, puro intrattenimento. Ed i significati ci saranno anche, ma non sono fondamentali per capire il film. Forse è tutto uno scherzo. Forse è solo un grande film.

Bunuel ci chiede di essere liberi, di dimenticare i più classici schemi "trama-film", ci chiede di andare al di là. Proprio per questo, "Il fantasma della libertà" è un film unico ed irripetibile, con una struttura cinematografica tutta particolare e personale: questo insieme di quadretti beffardi, non forma, come sempre accade nei film ad episodi, un "unicum", ma una serie di raccontini slegati fra loro, che da soli, formano dei piccoli film a sè. Il significato può essere lo stesso, ma ognuno è un qualcosa di diverso dall'altro, ed è un modo di concepire il cinema estremamente liberatorio (guarda a volte le contraddizioni), sciolto e definitivo, come solo un 74enne svincolato da qualsiasi logica commerciale poteva inventarsi.
Da segnalare un cast di tutto rispetto, pure nella sua eterogeneità: Bernard Verley, Paul Frankeur, la futura signora Pina Fantozzi Milena Vukotic, Adolfo Celi, Jean-Claude Brialy, Monica Vitti, Adriana Asti (una delle nostre attrici più brave e dimenticate). Tutti da dieci e lode.

Non è forse il film più bello del regista spagnolo (il Bunuel degli anni Cinquanta è superiore a questo), ma è il più libero, il più feroce, il più rivoluzionario di sempre. Destruttura la borghesia come fosse un pezzetto di pane. Poi ci ride sopra, e la prende in giro. Ci ricama sopra filosofie, si diverte a scomodare lo spettatore. Non sarà perfetto come ai tempi di "Nazarin", ma forse è più sincero. O solo più vecchio.

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