Catastrofe. Potenziale estinzione/annientamento del genere umano. Esistono tre filoni che avrò il senso pratico di identificare con tre film. Americanata : Independence Day. Dolore e fede annessi: Signs. Psyche-connection: Melancholia.

Presuppongo li abbiate visti, diversamente vi invito a farlo.

Sono un’anima semplice, facilmente rassicurabile. Adoro i primi due. Il primo, perché fa gioire il bimbo che è in me. Il secondo, perché lo esorta a crescere. Il terzo se posso lo schivo perché quel bimbo lo uccide.

Signs. M Night Shyamalan, ossia l’eccentrico egocentrico che se non ha una parte (quasi sempre da povero pirla) nei propri film, viene a nevicare.

Da soggetto che negli extraterrestri crede e spera, ho adottato Signs fin da subito.

Sedotto da invasioni aliene tipiche che scaturivano dal frastuono della metropoli, vedi il già citato Independence Day, ma anche La Guerra Dei Mondi od i recenti Skyline e Beyond Skyline, ho approcciato con curiosità questa fattoria sperduta in Pennsylvania il cui capostipite-pasore, un Mel Gibson piuttosto imperturbabile, tira a campare, vedovo precoce, con i due figliuoli musoni ed il fratello scapolo dal labbro leporino, l’impagabile Joaquin Phoenix.

Dai, ammettiamolo. Allo spettatore più attento e malizioso ancora all’oscuro della trama non sarà sfuggito l’aspetto saliente. Il Reverendo ha perso la fede, ma poi per tutta una tirototela la ritroverà.

E così è: solo che la tirototela è dipanata bene, arricchita, sobria ma arrembante nel suo ritmo piuttosto lento.

Non a caso il film ha raccolto consensi. E’ un’angolazione del tutto nuova. Sta per arrivare un’orda di ET cattivi e questi vanno a farsi una pizza da asporto al taglio di dubbia qualità.

Sulle prime non trovavo credibile il plot, ma poi mi sono detto: e perché ? Quando la famiglia si asserraglia in casa senza nemmeno un fucile ma facendosi scudo della forza dei ricordi, dei contrasti che vengono fuori e riconciliano, del dolore reso sopportabile da una tragedia imminente, allora, lì, ho realizzato che esiste una terza via. Quella dell’amore. Sì, non sto scherzando.

L’amore è spaventosa e irrinunciabile colonna portante del kolossal.

Per rendere ancora più credibile la sottile linea che lega i personaggi, tutti, i toni non salgono mai: si sussurra, dall’inizio alla fine. Tanto che l’invasione aliena passa in secondo piano, sopraffatta dall’uomo che cerca di ricomporre un puzzle doloroso, fatto di contraddizione (un sacerdote vive per rincuorare, per alleviare le sofferenze altrui ma fa un passo indietro e getta il collare nel momento in cui viene trafitto in prima persona) ed un presente che ne cerca il carisma.

E più lui, Graham, vuole defilarsi più co-protagonisti ed eventi lo scaraventano al centro della scena.

Finisce, con lo scorrere della pellicola, per diventare padrone e custode del futuro dell’umanità intera. Artefice di un assurdo che però riconcilia, anche quando lo spettatore stratega del risiko alieno può alzare la mano e far valere le proprie lecite obiezioni.

Ma, soprattutto, fa stare bene quel filo di tensione sopportabile che non defibrilla, ma trasmette piccole e quasi impercettibili scosse che incoraggiano lo spettatore a prendere per mano i protagonisti e riscaldarsi durante la visione.

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