Uscito nel 2004 con alterni giudizi di critica, e relativo successo di pubblico, "The Village" dell'indiano M. Night Shyamalan (già autore del sopravvalutato "Il sesto senso") costituisce una delle più interessanti riflessioni del cinema sulle tragedie dell'11 settembre e, più in generale, sulla paura e le sue implicazioni di ordine morale e politico.

In un isolato villaggio rurale degli Stati Uniti la vita scorre serena secondo i ritmi di inizio '800, in un clima solidaristico, governato da alcuni saggi del paese. Sull'ambiente, circondato da una macchia boscosa, incombe tuttavia la presenza delle occulte, ancestrali presenze dei boschi, che rendono sostanzialmente impossibile, per i laboriosi abitanti della zona, abbandonare il villaggio, anche a causa del radicale divieto dei saggi. Chi sono, o cosa rappresentano, queste presenze? Cosa può succedere a chi sfida il destino entrando nel buio del bosco? E cosa c'è al di là della macchia? Ad una ragazzina, cieca, il compito di scoprire una verità che non potrà essere riportata, e restituita, agli abitanti del villaggio.

Tecnicamente ben girato (soprattutto per quanto riguarda l'uso delle luci e della fotografia), recitato in maniera efficace, grazie alla presenza di attori come William Hurt e Adrien Brody, oltre alla rivelazione Bryce Dallas Howard, il film presenta dapprima un ritmo lento, come lenta è la vita e statica l'organizzazione del villaggio, per crescere gradualmente nella seconda parte, dove si narra delle peripezie della ragazzina cieca attraverso il bosco ed i suoi misteri aggiungendo quasi un tocco thriller a quella che, nella sostanza, risulta essere invece una narrazione a tema.

Tema che, come già anticipato, concerne il rapporto fra l'individuo, la sua organizzazione sociale, e la paura dell'altro da sé, del diverso, utilizzata come cemento per rafforzare la comunità e sopire i suoi slanci individualisti, quando non la sua progressiva trasformazione e disgregazione: è interessante notare, senza troppo dire circa gli esiti del film, come il terrore degli abitanti del villaggio per le presenze dei boschi, esseri apparentemente mostruosi con i quali appare impossibile instaurare qualsiasi rapporto o dialogo, sia cavalcata dai saggi del Paese per consentire la conservazione stessa dell'unità del villaggio, nell'ottica di un contrasto fra il "Noi" ed il "Loro", fra la bellezza della romita patria rurale ed il mistero della labirintica foresta.

La soggezione cui si sottopongono, in parte spontaneamente, in parte per induzione, gli abitanti del villaggio è, dunque, sia psicologico morale che politica: psicologico morale nel senso di conservare la purezza dell'inesperienza del diverso e dell'altro da sé, nell'interminabile presente di un villaggio isolato dal mondo; politica nel senso di essere strumentale alla conservazione dell'esistente, negando quella esperienza del diverso che, nello scuotere le certezze, favorisce anche l'evoluzione sociale e collettiva.

Nell'emigrante Shyamalan la consapevolezza del problema, con riferimento alla società americana (ma anche europea o italiana, a dirla tutta), appare spiccata e, probabilmente, tinta di un certo autobiografismo, laddove il conflitto che sussiste fra gli abitanti del villaggio e il mondo dei boschi può essere probabilmente visto come la metafora del rapporto fra Stati Uniti e  resto del mondo.

Va da sé che il regista non dà una risposta all'assillo morale, e politico, che pervade il film: del resto, la paura non è forse il vero collante del vivere civile, la ragione per la quale l'uomo si è aggregato ad altri uomini? Il problema, semmai, è nel capire chi sono i fantasmi ed i nemici di cui difendersi. Sperando che non siano nella società stessa, piuttosto che in un mondo esterno, più ipotetico che reale.

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