Nu-metal non significa necessariamente disastro. E neppure è sinonimo di commerciale. La verità è che, come del resto ogni genere, va saputo fare bene, e in effetti spesso ciò non è avvenuto, anche perché molti hanno cercato di approfittare del  nuovo genere per riempirsi le tasche (e il conto), accentuando l'elementarità dei pentagrammi (caratteristica basilare di questo genere) e rendendo le canzoni orecchiabili (più colpa dei produttori che degli artisti).
Per fortuna non è il caso di questo “Burning Red” dei Machine Head, disco criticatissimo da chi conosce il gruppo dagli esordi (e dai metallozzi), vuoi per il cambiamento di stile, vuoi per puro pregiudizio.Tuttavia un  lavoro praticamente perfetto, il migliore del genere (almeno secondo me): infatti tutti gli elementi del “grande disastro” , citati prima, sono assenti, per un sound di assoluto spessore, valorizzato da un'aggiunta di stile personale.
Si tratta di un album abbastanza omogeneo (in questo sono sempre loro), molto potente: dodici tracce di impatto addirittura devastante, e il tutto senza essere mai ripetitivo né troppo lungo (nemmeno 50 minuti).

Dopo la calma apparente dell' intro “Enter the Phoenix”, incontriamo “Desire to Fire”, che sembra emulare lo stile dei Rage Against The Machine, ma con più furia di loro; “Nothing Left” è piacevole, con il suo ritmo insostenibile, mentre “The Blood, The Sweat , The Tears” è caratterizzata pesantemente da cadenze rap. Subito dopo "Silver" tenta (senza riuscire molto) di far riposare le nostre orecchie da tutto quel frastuono, che però si rifà vivo in “From This Day”, ancora rap (quello tecnico però, con le vocali belle chiuse); “Exhale the Vile” si distingue per il suo ritmo lento e atroce e per l'apprezzabile cantato nel ritornello, seppure per pochi secondi; per chi lo volesse sentire più a lungo, ecco una cover dei Police, “Message In a Bottle”: era difficile, ma loro sono riusciti a trovare la giusta chiave di interpretazione. “Devil With the King's Card” ripropone il ritmo lento, con un'atmosfera ansiosa: degna di nota la tematica centrale, cioè il recente litigio tra la band e l'ex chitarrista Logan Mader, sostituito da Ahrue Luster fino al 2002. “I Defy”, seguita a ruota da “Five”, sono due canzoni che, dopo che si ascolta il resto dell'album, non sorprendono più, e ai metallari integralisti fanno pronunciare tutti gli insulti che non hanno rivolto mai neppure al peggior nemico. E neppure gli verrebbe voglia di continuare. D'altronde manca solo una traccia, la titletrack, interamente melodica.

A mio parere, una vera e propria dimostrazione di forza da parte della band di Oakland, che pur non appartenendo per natura al genere, ci si è cimentata, e ha saputo fare un disco molto più sostanzioso di quelli che facevano gli inventori (tipo Rage Against The Machine o Korn) e altri gruppi prettamente nu-metal (Deftones, Limp Bizkit, Sevendust, etcetera), e senza renderlo minimamente commerciale

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