Evaso

I cancelli del cimitero sbattevano, percossi dal vento, violentati dalle gocce grosse di pioggia, e lasciavano passare le foglie appassite in volo, riunite insieme nel viaggio spedito verso la morte. Mentre una scia di polvere si gettava contro la pietra fredda, una mano lacerata, consumata, abrasa si scagliò contro il cielo, stagliandosi al di sopra dell’effimera erba spirata. Le unghie logorate dal tempo senza vita si conficcarono nel fango, una spinta affaticata di un corpo pesante e una testa che fa capolino nell’aria ululante segnarono l’evasione del prigioniero della terra. A gattoni l’imponente e triste figura procedeva in cerca di un appoggio. Le dita incontrarono la lastra bagnata della lapide. Al tocco il corpo dell’uomo tremò e convulso cadde di nuovo nel fango. Due occhi si aprirono e piano piano misero a fuoco la scritta incisa sulla tomba. Questi lessero il nome e la data di morte. Poi, salendo, si fermarono sulla foto, nella quale viveva come un ricordo il volto sereno di un ragazzo dai capelli lunghi e dagli occhi chiari. La bocca dell’evaso, fino ad allora ferma, incollata, si stracciò ed emise un urlo profondo, roco, che squarciò l’aria pullulante di cellule addormentate. Con una forza sovrumana il corpo si alzò. L’evaso della terra si fiondò verso i cancelli, fece di volata la strada affiancata da due file di bianchi cipressi e si dissolse nel buio.

L’alba si affacciò all’orizzonte vestendo di oro divino le vaste distese. Accovacciato sopra un albero, come una vedetta, stava l’uomo, ora totalmente asciutto, pulito. Eppure il sole non era dedicato a lui, ma come per un rito era venuto a dar vita alla vita di tutti i giorni. L’evaso sbatté gli occhi guardando al di sotto. Il paesino sottostante si stava appena svegliando, a testimoniarlo le prime luci artificiali. Un’aquila, descrivendo un elegante semicerchio nel cielo, si posò sul ramo, vicino alla vedetta. Il fiero uccello girò la testa e sorrise enigmaticamente all’uomo. Quest’ultimo porse la mano e l’aquila vi si appoggiò. Con un balzo felino l’evaso si slanciò verso l’albero vicino, e, padrone dei suoi arti, si gettò a terra, senza farsi male.

Proprio in quel momento, a un centinaio di metri da lui, una ragazza si stava dirigendo verso una fonte di acqua limpida. Nuda vi entrò e si bagnò, baciata dai raggi gentili del sole appena nato. Allora intonò una dolce e ammaliante melodia. Le orecchie dell’evaso colsero il suono e furono subito soggiogate. Ei avanzò verso la fonte, in direzione di quella magnifica voce. I passi pesanti dell’uomo attirarono l’attenzione della ragazza. I suoi caldi occhi vivi, freschi e innocenti, attraversarono il corpo di lui e si fermarono sul volto. Sebbene la vista di quella faccia rovinata potesse spaventarla, lei ne fu affascinata. Con profondo interesse e cieca fiducia la ragazza si alzò e il suo corpo, puro, senza macchia, dinamico, non freddo e statuario, si mosse verso la sponda, a piedi nudi, talmente leggera che sembrava sfiorare appena il suolo. L’evaso la vide, e provò una strana sensazione dentro di sé. Dei ricordi cominciarono ad affiorare, un nome di donna si affacciò nella sua mente e capì ciò che aveva dimenticato, ciò che aveva perduto, essendo stato condannato a dormire nelle viscere della terra. Ricordò il giorno della sua morte, ricordò l’urlo straziante della sua amata che cercava di strappare alle mani degli esecutori il suo corpo. Ricordò la terra che gli era stata buttata addosso, il cumulo che lo aveva separato dall’universo, dalla vita.

In quel momento, mentre guardava con la bocca leggermente aperta, come intontito, ancora stregato dal canto dissoltosi nel vuoto, e ora irretito dalle linee di quel corpo sinuoso, così nuovo, così vivo, così vero, pensò alla sua donna, e qualcosa o qualcuno urlò dentro di lui. Svenne. Quando si risvegliò era tra le braccia della ragazza della fontana, e lei lo guardava con amore, con una curiosità casta e ingenua, eppure così autentica, così decisa. Egli tentò di articolare una sillaba, ma la ragazza posò le sue labbra sulle sue, mettendolo a tacere. Un brivido corse lungo la spina dorsale del reduce, che ebbe un tremito inconsulto. La vita gli passò davanti, rivide tutto quanto, dal momento della sua nascita fino alla morte. Rivisse i suoi sogni, i suoi incubi nell’arco di un battito di ciglio. E di nuovo, come un tempo aveva dovuto, forzatamente, lottando all’ultimo respiro per non soffocare sotto una pila di terra, spirò. Morì tra le braccia di una dea in fiore, se ne andò con una smorfia di estasi e di terrore.


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