Dolore e bellezza
Quando penso alla versione più bella che posso immaginare di me stessa penso alla trasposizione esteriore di quello che ho dentro. La cesura fra quello che vedo e quello che sento viene colmata, e la mia apparenza è uno specchio che mostra. Cosa mostra? Dolore. Un dolore come quello che si può provare davanti ad un quadro o un film, che ti fa piangere tanto per la tristezza che ti trasmette quanto per la sua innegabile bellezza. Per me non c’è bellezza senza tristezza, ma il problema è che la tristezza non è sempre collegata alla bellezza. Il fatto è che io sono la prima vittima di questo stereotipo e quando cerco di comunicare la tristezza, e il dolore, penso a delle categorie predefinite perché la forma di comunicazione che mi affascina di più è quella delle immagini, e le immagini si scontrano con la loro stessa natura per poter comunicare qualcosa che vada oltre l’apparenza. Mi chiedo come possa il mio aspetto esteriore trasmettere quello che provo, e far sì che il mio dolore sia la mia bellezza, e perché un corpo brutto sia condannato a non poter esprimere quel che prova e renderlo bello, poetico. Un corpo brutto è una tavolozza senza colori, un urlo muto, libro chiuso, una forza di gravità inesorabile che ti ributta a terra, nella terra, nella merda, nella consapevolezza di quello che sei e se c’è altro non lo vedi, perché quello che vedi ti ingloba, quello che vedi fa schifo, quello che vedi è lontano da quello che immagini, lo specchio che volevi essere funziona al contrario, e quello che vedi dentro di te è solo il riflesso di quello che sei fuori.
Probabilmente il mio desiderio di essere bella è la causa dello stereotipo secondo cui il dolore può essere comunicato solo attraverso una forma esteticamente adeguata. E per giustificare il mio banale desiderio cerco di mascherare la bellezza da qualcosa di più, una forma di comunicazione estetica, un mezzo per comunicare me stessa, quando magari alla fine non c’è niente da dire. C’è dolore senza bellezza e bellezza senza dolore. E il dolore è banale, la tristezza è banale. E’ la protagonista di tutte le opere d’arte, i libri, le poesie, e affascina sempre come se ogni volta fosse nuova e comunicata con parole diverse: proviamo tutti un dolore diverso o alla fine quel dolore è sempre lo stesso? Tendiamo tutti a poeticizzare il dolore, a unirlo a qualcosa di letterario, intenso, profondo, ma il dolore è banale come è banale essere tristi e infelici, e per di più è noioso. E nonostante questo chiede di essere riconosciuto, accettato, esternato: se non posso essere felice, allora almeno fa che io sia interessante. Fa che il mio dolore sia più bello di quello degli altri, che mi renda una persona più bella. Ma il dolore non rende nessuno migliore se lo usa come arma, aumenta solo la sensazione di rabbia e frustrazione, perché ti fa credere di meritare di più per il semplice fatto che lui è lì con te. Io penso sempre che meriterei di essere bella, ma questo probabilmente mi renderebbe meno triste, e non avrebbe giustificazione allora.
Bellezza e dolore hanno molte cose in comune: sono realmente incomunicabili, sono ingiustificati, tuttavia hanno bisogno di essere esternati e giustificati, e pensano di renderti una persona migliore. A livelli diversi sono fondamentali nell’immaginario collettivo ed hanno svariate forme di rappresentazione, che tendono spesso all'esagerazione, Sofferenza e bellezza sono delle ottime muse e, come delle muse, da sole non bastano per creare una poesia. (Sono una persona terribilmente triste e non sono nemmeno un artista, Dio devi proprio odiarmi vero?)