Silvano

Essere capaci di scrivere "cose" non è semplice, le parole si attorcigliano e sembrano inutili.

Scrivi, rileggi, cancelli.

Riscrivi, rileggi e ricancelli.

Le cose migliori le ho sempre dette "a braccio", scrivere non è proprio cosa per me.

In quest'epoca di folle corsa trovi sempre qualcuno che le "cose" riesce a dirle meglio di te.

La danza degli obblighi ( di Silvano Agosti)

Ci sarà pure qualche barbaro un po' meno barbaro tra coloro che hanno la responsabilità di organizzare le istituzioni o comunque di influire sul destino della gente.
Qualcuno cui riferire l'assoluta disorganizzazione e le umilianti quanto inutili costrizioni cui vengono sottoposti ogni giorno gli esseri umani.
Per non dire della violenza fortemente improduttiva che costringe i più a lavorare tutto il giorno, invece che dividerlo almeno a metà, riservando una parte della giornata al lavoro e l'altra alla vita. Su tutti pesa comunque lo spettro spietato dell'Obbligo.
Ormai si sa bene che l'Obbligo è una sorta di ruggine dei sentimenti, che finisce per corrodere e guastare ogni rapporto con se stessi, con i propri simili e più in generale col mondo.
Così, allo sguardo limpido di un bambino, oltre alla nudità del re, appaiono, uno dopo l'altro, gli Obblighi che pesano sulla realtà.
Dalle sette e quarantacinque alle otto e quarantacinque circa, i vagoni della metropolitana sono stracolmi, al punto da fondere umori e sudori in un magma di irritazioni e di sguardi obliqui.
Passeggeri stipati, da quelli che hanno l'Obbligo di recarsi al lavoro tutti alla stessa ora, a quelli che hanno l'Obbligo di andare a scuola, tutti con lo stesso orario, e lì, nella prigionia del banco, dominati dall'Obbligo di ''studiare'' e cioè immagazzinare nozioni non desiderate, invece di dare risposta a curiosità naturali sul proprio corpo, sull'ordinamento sociale, sull'assurdità degli obblighi.
Intanto nel centro della città, muovendosi a una velocità media di gran lunga inferiore a quella di un pedone, file interminabili di auto arrancano sui tracciati che conducono agli uffici, alle officine, ai negozi etc., ogni mattina rimanendo intasate per almeno un paio d'ore.
Perché tutti costoro ogni giorno si sottopongono a una pratica tanto asfissiante (in tutti i sensi, dato che queste diecine di migliaia di automobili emettono una spessa nube di ossido di carbonio)?
Apparentemente non c'è risposta, ma uno sguardo attento, dietro i vetri che li imprigionano, scorge sui loro volti rassegnati, un barlume di adesione a quell'innaturale procedere a due chilometri l'ora, espressa da un pensiero: ''Comunque, meglio qui incastrati nel traffico che in quel maledetto ufficio dove ho l'Obbligo di passare la mia giornata, anzi, tutta la mia vita.''
Come dar loro torto?
Ma dalle dieci in poi le strade della città si svuotano, le metropolitane viaggiano quasi senza viaggiatori e gli esseri umani si ricompongono nella disperazione degli obblighi quotidiani.
è immediato e semplice il pensiero che, scaglionando gli orari di lavoro, questo piccolo inferno cesserebbe di esistere.
Lo stesso dramma si ripropone la sera, quando il ritorno dalle otto o dieci ore di lavoro ridiviene privo di qualsiasi buon senso organizzativo.
Sfilano i volti esausti che compongono questo fiume di destini negati. Perché tutta questa gente ha dimenticato che si vive una sola volta nell'arco estremo dell'eternità? Cosa si può fare perché divengano coscienti della ferocia che li domina?
Forse sarà la Poesia a togliere agli uomini l'imbarazzo di una vita non vissuta. Sui luoghi di lavoro e sui mezzi di trasporto dovrebbero essere scritti questi versi:

''A voi, che dall'albero della vita cogliete le foglie e trascurate i frutti.''

Una canzone Bertoli

Il discorso tipico dello schiavo


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