Spirit, how long.
The Rainbow, Eden, Desire.
Dal silenzio
fiati lontani e chitarre sognanti,
a turno fanno capolino
timorosi di disturbarsi a vicenda.
Finalmente
sento il suono di un ruscello.
Nel 1988 esce un disco che parla di differenza.
È Spirit Of Eden, quarto album dei Talk Talk. Rispetto ai primi lavori la band inizia una parabola inaspettata: il loro synth-pop da classifica lascia il posto a un suono del tutto nuovo. Da pregevoli a impalpabili, sta qui la differenza.
Abituata ai successi radiofonici del gruppo, la EMI per poco non rifiuta di produrre l’album. Il sound è il primo elemento che li ha spaventati di questo disco. Etereo, dolce. I Talk Talk prendono le mosse dai temi del precedente The Colour Of Spring, ne esplorano gli stessi argomenti. Ma se con i versi continuano un viaggio, attraverso le melodie ne iniziano uno nuovo. Un viaggio di otto note, dove l'ultima è la prima, in atmosfere intimistiche e spirituali.
Lo scroscio d’acqua si ferma e la chitarra esegue il riff quasi blues di “The Rainbow”.
La batteria e le percussioni
pulsano pacate,
su questo nuovo tappeto di pianoforte
inizio a cantare sognante.
Di tanto in tanto annega in una nuvola di tastiere, questa voce quasi sussurrata. Qualcosa di magico, un dialogo con se stessi senza filtri.
La musica scorre lungo il ruscello la musica regala affreschi sonori di musica originalissimi in musica tra cui un curioso assolo di armonica di musica distorta.
In “Eden” il sussurro si fa avanti. Prende coraggio, tenta di spiegarsi. Vorrebbe urlare, ma non sa ancora se è il caso: nessuno ci crederebbe e lui non vuole convincere nessuno. L’organo solenne gli conferisce un’aura di sacralità, come se ciò che ha da dire potesse essere sacro. Qualunque sia il significato di sacro, non lo è mai stato. Sacro per lui, forse. Sacro quanto il girotondo bendati nella stanza più buia della casa. Sacro quanto cera calda sotto l'ombelico. L'eroina non è sacra, la differenza è sacra. Prigionieri sudano per liberarsi e quando escono dalla cella scoprono che in fondo ci si trovavano bene. La differenza. Tutti vogliono strapparsi le bende dagli occhi, tutti vogliono tornare bendati.
Anche nei momenti più intensi, Spirit of Eden mantiene una sensazione di pensosità.
inno di un profeta:
lo chiamo DIALOGO INTERIORE
perché quando ho provato a parlarne
loro hanno provato a rinchiudermi.
La suite di tre pezzi si chiude con–
“Desire”. De • Si • Re. Ritmica semplice e ipnotica di chitarra e organo in un crescendo che all’improvviso esplode deflagrando in un miasma assordante di percussioni.
–con pochi accordi di pianoforte,
qualche secondo tra uno
e l'altro
accarezzano il nostro respiro.
Inheritance.
Quarta traccia. Batteria eterea che la apre, la squarcia senza far rumore. La aiutano morbidi accordi di piano elettrico. Il silenzio suona più forte a ogni nota, preme sulle casse dello stereo, si spinge con rabbia contro le cuffie. Sfonda e si diffonde. Vince ogni melodia, l'unica alternativa è accoglierlo. Lasciarlo entrare.
Benvenuto, ora ti vedo.
E ti chiamo
e ti aspetto
e per la prima volta
riesco anche a sentirti.
Non esiste un significato nascosto quando non c'è significato. Versi criptici, ma sinceramente emotivi.
La differenza non si trova in ciò che è presente. Se passato e futuro sono mutamenti, il presente non ha variazione. La differenza deve trovarsi in ciò che è assente.
Sale ancora un canto.
Accende e risveglia le atmosfere con parole riflessive. La sua voce è sospensione. Ogni profezia è mancanza, ogni preghiera un'attesa.
Un canto superbo nella sua fiera fragilità.
È il vinile a girare sotto la puntina o la puntina a girare sopra al vinile? La musica si solleva e perde di intensità, il disco segue la propria dinamica. Procede lento lungo la scia che ha lasciato. Qualcuno grida «fila indiana!» e i bambini non sanno se li spaventa di più disobbedire alla maestra o non tenersi per mano. Là fuori fa già paura così, perdere gli altri li farebbe impazzire. Il silenzio è una nota da abbaiare insieme fino a tarda notte, fino a non reggersi in piedi. Fino a perdere il fiato: fino a un momento free-jazz in cui non sono rimasti altro che i fiati, smarriti gli altri strumenti e anche la maestra, a dialogare liberamente tra loro.
I Believe In You.
È un lieve ritmato groove
la prima mano del dipinto.
Basta stendere un velo di stomp
per lasciar affrescare un racconto
ai colori sommessi nel riff
ma vibranti nello spirito.
Credo in un solo spirito, che non è santo ma dà la vita. Niente di sacro in questo, neanche per lui. E non si parla di onnipotenti eroi, ma di maledetta eroina. Come fermarsi al Padre e al Figlio, quando è suo fratello ad averci rischiato la vita? Scrive della dipendenza che ha quasi distrutto la sua famiglia e ha il coraggio di dire io credo in te. Nulla di meno sacro, ma è qui lo spirito. È questo il dialogo con se stessi verso il quale spinge il disco.
Quando la differenza è la mancanza, quando si resta soli e si vive nell'attesa di un suono che spezzi un silenzio assordante, quando il suono non viene mai e quando viene ed è troppo debole, resta lo spirito.
Sonorità alte, frutto delle collaborazioni dei Talk Talk: un organico vastissimo, che punta a sottolineare in modo perfetto la pregnanza delle parole. Il gruppo tinteggia la seconda mano di colore. Splendidi acquerelli sonori, sfocati ma non confusi.
Wealth.
Il viaggio dentro di me si chiude
con sparsi tocchi sul piano
una scala di otto note
voltata al contrario,
girone dantesco
per trovarsi
di nuovo
in sé.
Ora lui cerca la semplicità. Un contrabbasso lo tiene sospeso sotto il livello del mare, a una profondità sconvolgente. Addormentato, neanche se ne rende conto. I pesci gli girano attorno, lo evitano. Si tengono a largo perché attorno a lui risplende un'aura inviolabile. Ipnotizzato, nemmeno lo sa. Nel ritornello gli nuotano vicino sussurri intensi e tremendi. Il profeta ha tentato di parlare e loro hanno provato a rinchiuderlo. Ma la verità è che dietro le sbarre non si sta tanto male.
«Take my freedom, for giving me a sacred love», sono le parole con cui si chiude l'album. Si nasconde un paradiso tra le quattro mura di una gabbia e quel paradiso siamo noi. Di questo parlano i Talk Talk con Spirit of Eden. Hanno rischiato di non essere pubblicati, ma si sono voluti reinventare. E con toni introspettivi, invitano l'ascoltatore a fare altrettanto: scoprire ancora una volta che ognuno è il proprio carcere, ma imparare a prendersene cura.
Siamo il nostro piccolo Eden personale. Se non ci fidiamo di noi stessi, crediamo almeno al nostro spirito.
«Spirit, how long.»
Dedicato a Mark Hollis (1955 - 2019)
Questo piccolo scritto è frutto di una collaborazione tra me e STC (vi invito a visitare il suo bellissimo sito), e dato che non più che una recensione è un vero e proprio "componimento" ho pensato di pubblicarlo qui.