Instagram, il trionfo del nulla.

Fosse stato per me - abituato a fare foto solo quando sento che è davvero necessario il supporto visivo - ne sarei stato fuori per sempre ma vedendo il fenomeno crescere (quanta gente ha perfino smesso di postare su Facebook o ne ha ridotto significativamente l’uso…) ho dovuto cedere per evitare di soccombere. Sto cercando, se proprio devo, di utilizzarlo in maniera creativa, presentando foto un tantino sensate, magari un tantino originali, talvolta davvero non so che cazzo farci, ma mi ritrovo anche ad osservare una realtà virtuale che qui si rivela in tutta la sua nullità.

Tutto a partire dal suo fondamento principale: Instagram è un social network prettamente visivo, che obbliga a postare un’immagine o un video, un contenuto visivo che sovrasta nettamente la parte descrittiva, quest’ultima collocata sotto all’immagine, anzi, figura semplicemente nei commenti, è il primo della serie, quasi come se dovesse scomparire o passare inosservata. Questo è già sufficiente per definire la società in cui ci troviamo: la società dell’apparire, quella dove il nostro modo di vestirci o di presentarci visivamente è più importante di quello che abbiamo da offrire, poco importa se poi dentro non si ha nulla. Sta di fatto che per mantenere viva la propria presenza sul social la gente si impegna a farsi una serie di foto perlopiù inutili e spesso uguali, molti sono banalissimi selfie in pose improbabili, spesso addirittura verso lo specchio con tanto di orrenda visione della manina che sorregge il cellulare mentre scatta la foto; sono foto talmente banali e prive di valore artistico ed estetico che è troppo evidente che l’unico motivo dello scatto è quello di rimanere sulla cresta dell’onda. Poi ecco i filtri, tutti già preparati da qualcun altro e pronti per essere utilizzati, con un clic ecco che una foto palesemente insulsa diventa apparentemente “seria”; è il trionfo del saper diventare chiunque con poco, mostrare a chiunque di essere persone “brillanti” che la sanno lunga, con un’aria da saccenti tuttofare, in un’epoca in cui tutti si spacciano per esercenti di professioni del quale non conoscono nulla chiaramente non potevano mancare gli pseudo-fotografi. Non bastasse fingersi fotografi ecco che ci si finge pure poeti, con risultati altrettanto discutibili, nel tentativo di darsi un tono e far sembrare sensato l’ennesimo scatto di bassa lega ecco che la fighetta di turno ci piazza la frase poetica, ma una frase il più delle volte già sentita e risentita, basata sui soliti concetti di amore, sincerità e quant’altro, spesso copiata in giro qua e là, figurati se la sciacquetta che quotidianamente inizia i discorsi con “se io avrei” è dotata di sufficiente fantasia per poter creare una frase d’effetto in piena autonomia. Poi c’è il festival degli hashtag, di cui la gente fa un vero e proprio abuso senza nemmeno sapere qual è la loro funzione, altrimenti non si metterebbe ad usare tag ipergenerici o completamente inventati; questo aspetto rivela l’incapacità della gente di usare la logica e la tendenza ad imitare ciecamente gli altri senza manco sapere cosa fanno, semplicemente fidandosi del fasullo motto “Vox populi, vox Dei”.

Poi ci sono le stories, queste specie di sequenze di immagini che scorrono automaticamente, non esiste un modo ufficiale per stoppare lo scorrere delle immagini (se non con alcuni escamotage) e spariscono dopo 24 ore, molti utenti le preferiscono ai post permanenti. Anche questo fenomeno stories ci rivela un dettaglio importante della società in cui viviamo: siamo meteore di passaggio, tutto quello che facciamo è cool in questo momento domani no, nessuna speranza di essere ricordati in futuro, dobbiamo solo cercare di attirare l’attenzione in questo momento e poi levarci subito dalle palle perché è così che la società vuole e anche la gente vuole così perché la società l’ha indirizzata a volere così. Storie che poi sembrano non avere davvero qualcosa da raccontare, niente a che vedere con i tempi in cui ci si metteva sul divano con il papà o con il nonno ad ascoltare con pazienza veri e propri racconti di vita, o con i tempi in cui si acquistava un rullino e ci si portava la macchina fotografica soltanto quando si partiva all’avventura e bisognava scrivere la storia di quel viaggio o di quell’esperienza; si facevano poche foto ma che avevano qualcosa da dire e da raccontare, chi si metterà più a riguardare le migliaia di foto che facciamo invece oggi?! Queste stories il più delle volte sono semplicemente sterili book fotografici prodotti in un momento di noia o spesso anche in questo caso per rompere il silenzio e riaccendere i riflettori su di sé per paura che si spengano per sempre.

Ma poi non capisco questo continuo proliferare di social network, abbiamo Twitter, Instagram, Snapchat, TikTok quando ne bastava UNO (Facebook) che era unico e completo di tutte le funzioni. Facebook ha tutto, stati, foto, video, note (funzione corrispondente al blog mai troppo valorizzata), giochi, sondaggi, domande, link, eventi, gruppi di discussione e quant’altro. Non capisco che bisogno ci fosse di spostarsi su una versione discount del social fatta solo di foto e video, con soli tre formati disponibili, con un massimo di solo 10 foto per volta non organizzabili in album e di 1 minuto per i video in bacheca. Ma credo di aver capito anche questo: la gente oggi non ha pazienza di ascoltare, non è interessata né curiosa, quante volte vi sarà capitato di cominciare un discorso e di venire interrotti, a volte dopo un po’ perché vi stavate dilungando o addirittura subito perché l’argomento non era interessante o peggio era scomodo, sembrano tutti sempre in preda alla paura di perdere tempo da spendere in cose migliori da fare quando in realtà di concreto da realizzare non hanno nulla perché oltre al tempo non hanno nemmeno la fantasia per realizzarlo; oppure a far paura è la verità, quella verità che potrebbe spegnere le illusioni. Lo sappiamo, la gente non vuole sentire altro che quello che vorrebbe sentirsi dire, quindi non vuole leggere stati e notizie che esprimono opinioni contrarie su qualsiasi argomento, non vorrebbe vedere l’articolo che rinfaccia la verità sul fatto che il mondo rischia il cataclisma oppure il post di quello antipatico, accettato fra gli amici per compassione, che rinfaccia la verità su quanto appunto il mondo sia falso, ipocrita e vuoto. C’è poi un altro elemento vincente, la mancata reciprocità delle amicizie, su Instagram si può seguire qualcuno senza che necessariamente l’altra persona lo faccia a sua volta; questo alla gente piace, piace essere guardata senza voler guardare gli altri o viceversa piace guardare gli altri ma pretende che l’altro tenga gli occhi a posto (come si spiegherebbero i numerosissimi profili privati?), non credo sia un caso se su Instagram non si è ancora creato un fenomeno “rimuovi dagli amici”; triste verità, la gente non è per lo scambio, non è per il confronto. Solo in un contesto così frettoloso e vacuo poteva avere successo un social network così immediato e povero di contenuti.

Qualcuno invece si lamenta semplicemente del fatto che Facebook è diventato un puttanaio, un elenco di post ingestibile e confusionario causato dalle continue modifiche all’algoritmo (che pretende di decidere per noi cos’è importante) ma se ci pensiamo siamo stati proprio NOI a renderlo invivibile; circa una decina d’anni fa esisteva la cronologia dei post in tempo reale, qualsiasi cosa veniva postata in quel momento da un amico o da una pagina veniva fuori, ma noi ne approfittavamo condividendo la minima cazzata, tonnellate di link mielosi o pseudo-satirici che intasavano letteralmente la home, poi ci iscrivevamo a tutti i gruppi possibili ed immaginabili creati per noia a rappresentanza di ogni singolo spostamento d’aria della nostra vita, roba del tipo “quelli che la mattina aprono la finestra” o “quelli che la sera dopo cena prendono il caffè”; se forse all’epoca ci fossimo limitati a postare solo quando avevamo davvero qualcosa da dire, non avessimo inviato richieste d’amicizia anche all’amico dell’amico dell’amico dell’amico visto una volta sola ad una festa o messo like a centinaia di migliaia di pagine forse Facebook sarebbe ora un luogo molto meno caotico e magari non avremmo costretto Zuckerberg a modificare l’algoritmo nella maniera più improbabile e dittatoriale e sarebbe ancora il re indiscusso dei social…

Per me Facebook resta il social per eccellenza, unico e completo, per il resto sono uno di quelli a cui piacerebbe ogni tanto ancora vedere la meritocrazia e le cose al posto giusto e pertanto penso che Instagram doveva rimanere una vetrina per fotografi con la passione vera per la fotografia e non per pseudo-influencer.


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