I miei morti
Non so a voi, ma a me il Coronavirus ha portato via tre amici e mezzo, e rischiato di portarmene via un quarto.
Il primo ad andarsene è stato Raniero. Mio compagno di banco in quinta liceo. Non so quanti compiti in classe di matematica gli ho passato, e quanti suggerimenti quando veniva interrogato.
Un po’ bullo, più grande di me di un buon anno e mezzo, con quella faccia senza paura e lo sguardo diretto, senza timidezza. Puntava le donne con naturalezza e ne conquistava parecchie, attratte dalla solita alea da maschio Alfa, tosto e coraggioso. Poi se ne stufava subito, o forse erano loro a mollarlo non gliel’ho mai chiesto. Fatto sta che niente mogli e niente figli, solo una lunga fila di conquiste.
“Tu non capisci un cazzo di donne…” mi aveva apostrofato solo un paio d’anni fa ad una cena di classe. Avrei voluto rispondergli cosa cazzo ne capiva lui, che non aveva avuto mogli, figli e probabilmente neanche mai il cuore spezzata per una di esse. Ma ho lasciato perdere… probabilmente si riferiva soltanto ai miei gusti estetici, e poi sarebbe stata un uscita da rosicone.
Ne ammiravo/temevo/rosicavo il coraggio di vivere, di aver affrontato quegli anni difficili e formativi fra i quindici e i venti, che io avevo vissuto con ben maggiori dubbi e prudenze e difficoltà. Ma forse anche lui a suo modo era preda di qualche insicurezza: si mangiava le unghie a sangue, ricordo… non aveva che mozziconi in cima alle dita. Solo che non dava proprio a vedere le sue incertezze, era uno smargiasso naturale.
Da giovanissimo aveva cominciato a fare musica, era cantante in un complessino che girava i locali. Io ancora mi baloccavo a casa con la chitarrina, senza grossi progetti se non di imparare a suonarla sempre meglio.
E’ stato lui che un giorno d’inizio terza liceo mi disse di lasciar perdere quei 45 giri pop che mi vedeva in mezzo ai libri, e di ascoltare per bene i Led Zeppelin (e chi cazzo erano?), “i migliori del mondo”, che avevano al tempo fatto uscire il loro terzo album.
Sono passati cinquant’anni e il mio gruppo preferito sono rimasti quei quattro là. Grazie Raniero.
Giorni dopo, un altro mio compagno Enzo mi disse “…ma che Led Zeppelin domani ti porto io un disco che spacca!”. E il giorno dopo mi mise in mano “Deep Purple in Rock”. Conoscevo già “Black Night” ma la botta di quei quaranta minuti al fulmicotone mi lasciò basito.
Un mese dopo un altro mio compagno di classe, Attilio, mi allunga “Paranoid” dei Black Sabbath e mi dice “sentiti questo!”. Conoscevo già “Paranoid” ma quando partì il riffone di “War Pigs” con tanto di sirena antiaerea mi venne il più forte dei formicolii alla nuca. Che tempi.
Raniero era un po’ stronzo, ma generoso. A diciott’anni aveva preso subito la patente e mi portò colla sua Mini di seconda mano, insieme a suo fratello Roberto (futuro pianobarista sui transatlantici, ora è in quarantena al largo del Brasile) e al suo batterista Tiziano, al mio primo concerto: Deep Purple al palasport di Bologna (alle tre del pomeriggio! Usava così).
Va su il gruppo di apertura certa Premiata Forneria Marconi e fanno solo cover (si erano appena messi insieme). Aprono con “21th Century Schizoid Man”, poi mi ricordo “Bourée” e “Gypsy”. Bravi!.
Poi arrivano Blackmore e soci. Magnetico l’uomo in nero… si attacca agli amplificatori e gratta la Stratocaster sui bordi delle spie, e chi ha mai vito una cosa simile? Ho sedici anni... Non capisco ancora un cazzo di chitarra e di musica, percepisco solo il magnetismo del chitarrista e, curiosamente, mi resta impresso il suo mento estremamente sfuggente.
Siccome io ero bravino a scuola e lui no, Raniero mi chiedeva sempre di andare a studiare a casa sua. Un’oretta sui libri e poi invariabilmente lunghi ascolti dei suoi già numerosi dischi (gli giravano i soldi grazie alle serate nei locali) dallo stereo vicino al letto. Senti questi! Chicago… Senti questi! Atomic Rooster… dopo di che si finiva in cucina a mangiare la Nutella a cucchiaiate (quando non c’era la madre).
La musica ha salvato la mia vita e Raniero è stato la persona più decisiva per farmi avvicinare ad essa.
Ora aveva sessantasei anni e un polmone quasi del tutto compromesso da tre pacchetti al giorno di Marlboro per quarantacinque anni. Il virus ha maramaldeggiato su di lui, che ha resistito in terapia intensiva per una decina di giorni prima di arrendersi, il dieci di marzo.
Come si è infettato? Facile: era andato a vedere le finali di Coppa Italia di basket di metà febbraio tutte nel palasport della sua città. Otto squadre fra lombarde, venete, emiliane, sarde, pugliesi, col loro seguito di migliaia e migliaia di tifosi, molti già belli infettati e che hanno invaso hotel ristoranti bar e pizzerie, inconsapevolmente seminando la strage qui da noi.
Raniero ed altri, ancora a febbraio pochi giorni dopo le finali di basket, si ritrovano tutti in un localetto vicino al porto. Suona il gruppo di Eugenio, il cui cantante Giancarlo a sua volta non s’era perso una partita al palasport nei giorni scorsi. Eugenio e Giancarlo sono miei amici: montavamo sul Milano Lecce delle sette e zero nove ogni mattina, per raggiungere l’università distante sessanta chilometri. Giancarlo zompava sul predellino e poi nel vagone, quelli col corridoio laterale. Apriva la porta del primo scomparto, usciva un tanfo misto di piedi, flatulenze, bucce d’arancia e allora lui gridava “Grisù!!” e passava al successivo. Finché ne trovava uno decente e provvisto dei quattro cinque posti a sedere che servivano a tutti noi.
Eugenio era una persona splendida: ingegnere elettronico, titolare della cattedra di musica elettronica al Conservatorio, progettista di sintetizzatori, compositore di musica elettronica, diplomato in pianoforte a diciannove anni, fantastico pianista jazz, suonatore di organo Hammond amico personale di Brian Auger.
Un giorno c’erano i Traffic in giro per il centro della nostra città. La sera prima li avevamo visti suonare al palasport. Jim Capaldi ci spiegò che era saltato il concerto successivo a Udine e perciò avevano un giorno buco senza impegni. Li portammo da Eugenio (non tutti, solo Lui, Winwood e il percussionista Reebop), nella cantinazza delle prove. Eugenio si mise al piano Rhodes, Winwood all’organo, Reebop alla batteria. Giancarlo (fluent English) alle relazioni pubbliche. Ci diedero dentro per due ore, poi Winwood chiese una chitarra. Qualcuno si scapicollò a casa e recuperò una Gibson per l’allora ventiseienne rockstar inglese. Ho una foto in cui mi si vede abbarbicato sopra un tavolo mentre sotto di me Winwood si strimpella la Les Paul.
Eugenio diversamente da Raniero non aveva patologie pregresse serie, che mi risulti. Sessantacinque anni ben portati. Eppure ha resistito intubato per un mese buono fino al cinque aprile, poi se n’è andato facendomi piangere come un vitello perché se c’era una persona che non meritava questa sfiga, era lui. Quante belle chiacchiere, quanta disponibilità, quanto talento, quanti bei ricordi, quanta riconoscenza! Mi manchi, Eugenio.
Giancarlo invece ce l’ha fatta: è stato una decina di giorni in ventilazione forzata e in qualche modo ne è uscito. Appena saputo che l’avevano rimandato a casa a finire la convalescenza, immaginando la sua situazione, le sue paure e forse i suoi rimorsi (seppure ingiustificati), gli ho solo whatsappato un bentornato e un ti voglio bene. M’ha risposto “Anch’io, amico mio” e bona lè, come dicono i bolognesi. Basta e avanza.
In quel cazzo di localino, a veder suonare Eugenio e Giancarlo, insieme a Raniero e a tanti altri, c’era anche Sergio, sessantaquattro anni.
Altro musicista, sebbene dilettante (insegnante d’inglese il suo lavoro). Lui assai più naif… chitarra per lo più acustica ed esibizioni per lo più per strada, senza paura anche a sessant’anni. Anche in Australia, dove era schizzato da giovane per evitare il servizio militare che aborriva, lasciandomi in custodia la sua Gibson diavoletto, debitamente restituitagli un paio d’anni dopo al suo ritorno.
Anche lui buono e caro, un pezzo di pane. Meno affascinante del talentuoso Eugenio, dell’estroverso Giancarlo e del cazzuto Raniero, ma un giusto.
Quando decisi di imparare a suonare la chitarra lui già si destreggiava più che decentemente sull’attrezzo ed io stavo con gli occhi di fuori a carpire qualche accordo e qualche posizione. Con gli anni, grazie al mio carattere più organizzato e alla mia costanza diventai uno strumentista assai più completo di lui, ma gli sono grato per gli inizi, e gli ho sempre invidiato la forza e la sicurezza dello strumming colla mano destra… un vero ritmico, un verso busker da strada.
Il povero Sergio l’hanno rimbalzato fra Senigallia, Fabriano e Jesi, dove poi se n’è andato, il venti di marzo. Aveva la polmonite, ma il tampone era stato negativo e hanno perso giorni preziosi (e pericolosi per chi gli stava vicino!) a tenerlo in reparto normale. Poi l’hanno sbattuto già bello che intubato a destra e a sinistra finchè ci ha rimesso la pelle, solo e tapino.
Il suo dottore gli aveva prescritto antibiotici e tachipirina, lui se ne è stato una buona settimana colla febbre a trentanove prima di decidersi a correre al pronto soccorso. Viveva da solo, e non voleva rompere i coglioni a nessuno. L’umiltà non paga, in questo paese dove se non alzi la voce vuol dire che non esisti.
Sergio non lo meritavi neanche te. So io chi lo meriterebbe.
E per soprammercato, un giorno di aprile ho saputo che se n’era andato anche il mio antico vicino di casa Massimo. Abitava al primo piano della palazzina dove io stavo al terzo ed ultimo. Insomma, a cinque sei sette otto anni giocavamo insieme a nascondino, a pallone, colle biciclette, coi fucilini, coi pattini.
Poi ci siamo persi per sempre di vista, io in un'altra città, lui a fare l’assicuratore in questa, mi dicono. Come cavolo si sarà infettato non ho idea… forse anche a lui piaceva il basket ed era andato in quel palasport pieno di cremonesi, canturini, milanesi, veneziani infettati.
Sono in lutto, ragazzi. Per me non è solo questione di mascherine guanti e distanze. Io ho i miei morti, e i ricordi della mia gioventù con loro, che ogni tanto m’intristiscono la giornata.