Il quinto protocollo
Djianhe si aggiustò la mascherina, con un riflesso spontaneo la alzò sul viso e la strinse attorno
al naso.
Un odore rancido di vecchio cibo incrostato e muco gli avvolse la gola, non si era mai abituato a
calzare quella pezza di carta e cotone, ma, come tutti, non se ne lamentava e si convinceva che
fosse indispensabile.
Il caldo di maggio gli imperlava la fronte e l'eccitazione del momento faceva sudare anche
buona parte del resto del suo corpo.
Alzò lo sguardo sul bel palazzo che gli stava di fronte, cinque piani candidi di intonaco coloniale,
intasato di vecchi fregi, balconate vuote e stucchi eleganti.
Attraversò la strada deserta, solo una vecchia con una logora borsa ricavata da un tappeto da
preghiera s'allontanava da un lato.
L'androne odorava d'alcool denaturato e di stracci vecchi d'ammoniaca, non un granello di
polvere copriva il bel pavimento di marmo e, alla sua destra, una lucida e maestosa scalinata,
incorniciata da una ringhiera di ferro, muta saliva con dolcezza verso i piani superiori.
Djhanhe sentì il suo cuore perdere un battito e avvertì un tremore alla mano destra, non si spaventò, gli capitava sempre quando aggiornava il software che il Buon Pastore aveva
pensato per lui e per tutti; anzi era un effetto collaterale piuttosto comune ed era un piccolo
disagio che tutti tolleravano senza troppo interrogarsi.
Riprese fiato, abbassò la mascherina e l'odore d'alcool e ammoniaca sembrava quasi migliore
del lezzo di capra cotta del cotone marcio che era obbligato a tenere sul muso.
Con coraggio prese le scale ed iniziò a salire con passo costante. Occhi lo guardavano dalle
porte chiuse, ma non se ne curava, nessuna macchina del Buon Pastore l'aveva seguito o
ammonito per strada, e anche all'interno del bel palazzo nessun drone, volante o strisciante,
l'aveva disturbato.
Si convinse, una volta di più, che la Super Intelligenza che tutti seguivano, di cui si fidavano
ciecamente e che amava farsi chiamare Buon Pastore, stava benedicendo i suoi immacolati
sentimenti.
Djianhe non dovette nemmeno bussare alla porta, lei gli aprì nel momento esatto in cui lui
appoggiava i piedi sullo zerbino consunto che un tempo era stato un bel tappeto.
Entrambi non ricordavano più come avessero fatto ad arrivare fino a quel preciso istante, e non se
ne curavano affatto.
Forse una noiosa ora passata in coda a distanza legale per comprare un po' di caffè, forse lui
aveva timbrato una giustificazione per lei, o aveva atteso di poter pagare un conto allo
sportello in cui lei lavorava; non era più importante, tutto il tempo e il mondo era solo lì, adesso.
La pelle bianca di lei rifletteva la bella luce di Maggio, mentre quella nera di lui la assorbiva con
la stessa grazia.
Entrambi brillavano di nervoso sudore.
Djianhe sentì per la prima volta dopo tanto tempo quella scossa elettrica che dalle base della spina dorsale passa
sotto i testicoli e fa fiottare il sangue ossigenato in avanti e che gli provocò un'erezione; era
felice.
La sensazione durò poco e la sua mano destra iniziò a formicolare, scoppiò in lacrime mentre
proprio quella mano si alzò sulla gola di lei, strinse e pianse e cercò di non pensare.
Quando la vide a terra senza respiro, la stessa mano gli si calò dolce sul viso, le lacrime erano
finite e la mano, indipendente dalla sua volontà, si alzò sulla fronte e, come due entità separate,
ballarono all'indietro fino alla bella balaustra di ferro battuto del pianerottolo.
Si appoggiò sereno sul marmo dopo dodici metri di volo, pensando a lei e a quanto fosse bella.
Solo pochi secondi di ronzio dei ragni pulitori del Buon Pastore turbarono la sua ultima visione del paradiso.