La ballata per una ragazza annegata - Baal

Reduce della lettura della rappresentazione teatrale "Baal", da cui è tratta "La ballata per una ragazza annegata" (Milva canta Brecht), mi sono reso conto di quanto sia necessaria la conoscenza diretta delle cose al fine di poterne avere le giuste suggestioni. Sovente ho provato una malinconica e romantica tristezza, ascoltando le note del brano in oggetto. Tuttavia, leggendo l'intera opera da cui è tratto, sono giunto a quello con un senso di estraniamento; privo di languori o compianto e quasi innervosito dal trovare una tale punta lirica come prodotto di un personaggio vestito di nefandezze.

La "ballata per una ragazza annegata", pezzo di un crudo realismo, sintetizza uno dei momenti di piena lucidità di Baal, il protagonista dell'omonima rappresentazione di Bertold Brecht. Animato da una certa intransigenza, sfaccettata da punte frequenti di noia verso chi, di volta in volta, blandisce la sua vena lirica o la vilipende, Baal é tutto delineato dall'ancestrale eco del suo medesimo nome.

Originaria figura di spicco della mitologia fenicia, Baal, con il passaggio al monoteismo giudaico, iniziò ad indicare una statuetta materiale, simbolo della idolatria dell'uomo verso i falsi dei.

Parrebbe, in questo senso, emblematico, un passaggio della rappresentazione brechtiana in cui viene chiesto a Baal se crede in Dio e questi risponde:

"Credo in me stesso ma si può sempre diventare atei".

É qui, probabilmente, condensato il motore dell'intera opera.

Baal vorrebbe credere in se stesso come uomo, ma per rendersi tangibile e auto-comprensibile, necessita di gettarsi in un costante stato di ebbrezza attraverso i fumi dell'alcool, come se una reale ubriacatura gli potesse rendere più sopportabile l'intima estasi prodottagli dalla sua stessa vena poetica. Ancor più a fondo, Baal vorrebbe credere in se stesso come poeta, ma il sentimento vivo di rigetto verso la natura corrotta dell'esistenza, lo spinge a cercare impressioni di purezza nella poesia, che pure fatica a sgorgare, e di cui mendica il seme in fanciulle che, simbolicamente ed ostinatamente, sono definite come "illibate", nonostante appaiano come madidi fiori del male baudelairiani.

Così, il vivo sentimento del contrario che sgorga in Baal dallo scontro tra la sudicia esteriorità e la sua trasfigurante interiorità, si spingerà sino a produrre in lui la necessità di un gesto rinnegatorio: un gesto omicida, a cui seguirà la sua gretta morte, pressoché priva di rimorso.

In ogni gesto del protagonista, del resto, c'è una costante nota di cinismo che finisce, poi, per macchiare anche la sua stessa fine; un correlato del distacco che si presenta come primo germe della "terza voce" brechtiana.

"Quando, poi, nell'acqua
Il livido corpo marcì
Accadde, ma adagio
Che Iddio la scordò
A poco a poco
Prima scordò il suo viso
Poi le mani e i capelli
Una carogna fra tante carogne"

Questo scrive Baal per la donna che lo amava e che, da lui scarsamente apprezzata, muore suicida.

"Ci avremmo le uova, adesso, se non se le fosse mangiate lui. É il colmo: rubare le uova, quando è già steso sul letto di morte! [...] Che mancanza di riguardo. Uova in un cadavere!"

Riflette uno sconosciuto innanzi al corpo esanime di Baal.

Una carogna tra tante carogne...

Che venga dissipato ogni senso di pietà!


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