Yuuhuh Rinty (di Ivano Sartori)
Grazie per la felicità, Rusty
Il primo aprile, a 77 anni, dopo una vita segnata dall’alcol, dalla droga e dalla povertà, è morto in miseria Lee Aaker. Il nome non dirà molto a chi ha meno di una certa età. Ma riaccenderà i fuochi della memoria ai miei coetanei se lo chiamo Rusty. Nella seconda metà degli anni Cinquanta e nei primi Sessanta, è stato il caporale bambino di Fort Apache nella serie di telefilm «Rin-Tin-Tin», dal nome del cane pastore suo inseparabile amico e mascotte della guarnigione di cui erano comandanti il tenente Rip Masters e il sergente Biff O’Hara. Un avamposto di «civilizzazione bianca» nella terra degli infidi e crudeli indiani. Quando ancora si pensava che i soli indiani buoni fossero gli indiani morti o quelli addomesticati per fare da scout alle giacche blu.
Noi bambini però non la vedevamo così e a lungo cavalcammo con il Settimo Cavalleggeri contro Sioux, Apaches, Comanches e tutte le tribù ribelli che uccidevano, torturavano e scalpavano i coloni bianchi. Una menzognera epopea che durò fino agli inizi degli anni Settanta. Fino a quando la stessa Hollywood non ci aprì gli occhi con film revisionisti come «Piccolo grande uomo», «Soldato blu», «Uomo bianco va con il tuo Dio», «Corvo Rosso non avrai il mio scalpo» e altri che riabilitarono, ormai troppo tardi, i popoli autoctoni d’America.
A quell’epoca, Rusty non indossava più l’uniforme blu, non recitava più, aveva intrapreso il mestiere di falegname che avrebbe continuato tra alti e bassi per una ventina d’anni, ma soprattutto era entrato nell’inferno degli ex bambini prodigio prima spremuti e poi gettati dalle major del cinema. Gli fecero compagnia droga, alcol, solitudine e scelte sbagliate. Fino alla fine. Di tanto in tanto una tivù o un giornale lo riesumava per un’intervista sui bei tempi andati o per raccontare cinicamente il suo sfacelo. La nostalgia canaglia e la caduta degli idoli sono temi che appassionano da sempre e ovunque la plebe televisiva.
La morte di Rusty m’intristisce perché mi rimanda ad anni in cui la tivù era un bene prezioso e raro, non alla portata di tutti. Dei 169 episodi di Rin-Tin-Tin ne avrò visti al massimo una decina sul finire degli anni Cinquanta. Quella sigla televisiva con la tromba che suona l’adunata, lo schieramento dei soldati in riga e la colonna che esce a cavallo da Fort Apache è un ricordo indelebile. Una scheggia dei miei anni spensierati. Quel che io provavo lo hanno provato per molti anni centinaia di milioni di piccoli telespettatori sparsi in tutto il mondo. Un sentimento universale chiamato felicità.
Quelle immagini in bianco e nero che il tempo ha ingrigito furono il nostro sogno a colori di un’America immaginata e immaginaria. Uguale per tutti, sia che abitassimo nelle metropoli come nei piccoli paesi. Chi viveva in campagna faceva meno fatica a sentirsi nel Far West. Mai avrei pensato che quello che per noi era stato un sogno potesse diventare un incubo, un fardello esistenziale, per il piccolo Lee Aaker. Rusty pagò la nostra felicità con la sua infelicità. Un prezzo troppo alto. Eravamo complici dello sfruttamento di un ragazzino poco più grande di noi e non lo sapevamo. Invidiavamo il suo mondo. Sia quello fasullo di Fort Apache, sia quello vero di Hollywood. A vent’anni siamo stati colpevolmente stupidi, a dieci lo eravamo con innocenza. Mi piacerebbe poter credere che ci sono stati momenti in cui Lee Aaker era consapevole di averci regalato un sogno. Grazie per quel dono, Rusty.
#sceltodaiside
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