Ponte.

Ci hanno prosciugato i dotti lacrimali, disseccati.
Ci hanno promesso una giustizia, non una qualsiasi.
Ci hanno abbeverati alla fonte della pietà.
Ci hanno fatto inorridire di noi stessi, quando abbiamo desiderato la pena di morte per i miliardari dei tessuti e del pedaggio e per i loro disgustosi scagnozzi alla ricerca della soddisfazione dei pescecani del surplus.
Ci hanno costretto, in quattro anni, a cambiare strada od a girarci dall'altra parte quando passavamo davanti ai monconi del ponte crollato od anche al nuovo ponte rifatto.
Ci hanno portato ad alzare a manetta il volume dell'autoradio quando passavamo sul nuovo ponte, lucido come uno specchio, freddo come un cancro.
Ci hanno persino fatto guardare con disprezzo gli operai al lavoro nei cantieri autostradali, sotto la pioggia o sotto il sole a 35 gradi di temperatura.

Ieri, un vecchio compagno, cancelliere in tribunale, prossimo alla pensione, davanti a fugassa e vin giancu, mi ha detto che i magistrati che hanno iniziato il processo "Morandi" hanno gli occhi spiritati, che raramente, in quarant'anni a Palazzo di Giustizia, ha visto dei giudici con lo sguardo fermo e deciso come il loro. "Darebbero tutte e due le braccia per non finire negli stralci, nelle derubricazioni o, peggio che mai, ad una scadenza di termini.... Mi accendono una debolissima speranza nella giustizia, e tu sai dove e da quanto lavoro io..."

Oggi tanta gente si accalca sotto al nuovo ponte, in quello spazio informe ed anonimo, risicato e rosicchiato, all'incrocio della Certosa, ad ascoltare gli infami senza dignità che sul crollo di quel tumore malcurato ci hanno costruito fortune politiche, il Gatto e la Volpe dell'agone politico genovese, cementatori presenzialisti e rotti a qualunque compromesso in nome di carriere tanto anonime quanto qualunquisticamente indegne, a sentire il vescovo e l'imam, due brave persone, due uomini buoni, ma due preti, insomma.
Tutti gli astanti si proteggono dal sole con ombrellini bianchi, tutti uguali, forniti dagli organizzatori, sembra una sfilata di moda di quart'ordine.


E poi i parenti, i parenti di quarantatré nessuno qualunque, colpevoli solo di aver preso un'autostrada per andare in vacanza od a lavorare, i parenti delle vittime, capitanati da una smunta signora consumata dal dolore, che ha sempre dignitosamente resistito all'usura del pianto e dell'Assenza, delle promesse e delle garanzie, orgogliosa e severa, col sorriso triste di un Don Chisciotte che ripensa a quant'erano grossi i Mulini A Vento, ed intanto parla ai convenuti senza guardare in faccia né politici né preti, parla di contratti di concessione che non avrebbe firmato un bambino dell'asilo, di disillusione, di speranza nel rispetto per le vittime e per il dolore dei congiunti.

E poi, tra le lacrime, cita una frase sentita da un parente di una vittima della strage di Bologna: "A forza di osservare minuti di silenzio sono passati anni di vergogna"

E poi musica ed applausi, la violoncellista che non strazia nessun animo, col cameraman della tivù locale di Cavalier Serventi che, per un attimo, nella noia che lo pervade, inquadra meglio i presenti, seduti, con gli ombrellini bianchi aperti, che occupano si e no due terzi dei posti a sedere disponibili.


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