Occhi neri, o l'Elegia Della Normalità

Su il sipario.

Anonima, in quanto normalità, certo, comune a tanti/e, normalità di miseria, d'immigrazione "interna", di bassa manovalanza, di dignità conquistata col lavoro.
Declinata al femminile, in aggiunta.

Negli anni Cinquanta, nel Nord Italia, neo-ricco, adagiato, nebbioso, tra le fabbriche dell'allora Triangolo Industriale, i porti, le colline e le pianure coltivate a vite, a mais, a grano, alla qualunque, non si aveva solo bisogno di mano d'opera nelle unità produttive, sulle banchine piene d'ogni bendiddio o nell'edilizia che esplodeva, c'era pure bisogno, tra gli strati più agiati della popolazione, di quelle che oggi chiamiamo collaboratrici familiari, che abbiamo chiamato donne di servizio ed allora chiamavano, crudamente, serve.
Perlopiù si attingeva dalle quasi inesauribili riserve delle giovani figlie di Sardegna e Veneto, incredibile a dirsi oggidì, oggi l'opulento, il ricco Veneto...
A Milano, Torino e Genova le signore della buona borghesia dicevano "Devo parlare alla sarda" od anche "alla veneta" intendendo alla colf, ecco, e lo facevano, forse, pure, senza malizia o disprezzo, si diceva così...
Tu, ecco, parliamo di te, occhi nerissimi e profondissimi, grandi e dolci, capelli corvini, lisci, tradivi così la tua provenienza isolana... Poi, portavi il nome della santa-bambina, vergine e martire, adorata nella tua provincia, quella santa festeggiata a fine settembre. Le signore del nord si stranivano, che razza di nome, ma vabbé, sei sarda...

Elegia della normalità. Quella normale.

A sedici anni, occhi neri e profondissimi, stralunata ma decisa e determinata, sbarcasti a Genova, prendesti il treno per scendere a metà della strada per Torino, alla stazione ti attendeva tua sorella maggiore, che già lavorava là da tempo e là ti aveva trovato un lavoro a casa del medico condotto, allora autorità riconosciuta, nei paesi contadini, col sindaco ed il prete.
Oh, già, l'italiano lo mastichi poco e qui parlan davvero strano... Ma mangiano tutti, e tutti i giorni, e tre volte al giorno, poi... E tutti hanno le scarpe, per il lavoro, per la festa, e le ciabatte per stare in casa, la sera...
Qui partì la tua "carriera" professionale, quella di una bambina con la quinta elementare già adusa a qualsiasi lavoro domestico, che si era tirata su quattro fratelli e sorelle, la mamma al lavoro duro nei campi e tu la vicemamma. E ti era servita,l'esperienza "domestica", al nord sapevi praticamente già tutto di come si conduce una casa, i tuoi padroni, come li chiamavi tu, ti volevano bene e ti avevano anche insegnato ad esprimerti in italiano corrente, loro che parlavano solo piemontese stretto, quello del Monferrato, ma tant'è...

Lavoro, lavoro ed ancora lavoro... Poi, un Natale, vacanza a casa, in Sardegna, un amico di famiglia ti presenta un suo amico fraterno, del tuo stesso paese. Bel ragazzo, conteso tra tante, gran lavoratore, all'estero, certo, il sorriso un po'sornione, clarcgheibol de noantri.
Tu, magra, occhi neri e profondissimi, il sorriso timido, sincero...
Bum.
In otto anni di fidanzamento l'avrai visto in tutto dieci volte, vi siete scritti, hai imparato a farlo benino, la grammatica è un po' così ma la grafia è bella, tonda, elegante. Vi siete sposati, chiesetta in riva al mare al vertice basso di quel Triangolo, vivete lì, lui operaio, tu operaia, sono gli anni del boom economico, qualsiasi cosa voglia dire, qualcuno fa il grano con facilità e con altrettanta facilità lo perde, alcuni scalano la società studiando (allora si poteva!!!), altri lavorano come muli dalle sette di mattina alle otto di sera e trovano il tempo ed il modo di far pure due figli, di comprare una televisione a valvole, di votare PCI quando si va a votare, di chiamare il padrone "datore di lavoro", di pagare un affitto per una casa dignitosa, in un quartiere pulito. Niente macchina, non scherziamo, a piedi od in autobus e via andare.


Canzonissima, passeggiate tutti insieme, la domenica pomeriggio, sul lungomare a parlar di quella cosa lì, di futuro, quel futuro d'ogni giorno, magari cinema, tre, quattro volte l'anno e ballo liscio alla Festa dell'Unità, vi guardano tutti, siete due assi, col liscio, col tango...
Coi figli sei, naturalmente, una gran mamma e sai ogni cosa che serva a tirarli su, tu che hai cresciuto i tuoi fratelli minori, comprendendo,ogni tanto, un manrovescio,secco, ben dato, preciso, non bisognoso d'ulteriori, particolari, spiegazioni.
Usava così.
Poi tanta fatica, finalizzata alla comprensione dei ragazzi, in questi tempi così diversi dai tuoi, da quelli della tua giovinezza, in gran parte negata dal lavoro e dalle responsabilità.
Sempre e comunque dolcissima, come sei sempre stata.

Ancora... Elegia della normalità.

I figli, terribili, ma studiano, fanno sport,sì, ma "Signorammìa, suonano in quei gruppi di gente strana , poi la politica, c'è bisogno di picchiarsi coi carabinieri per fare politica, signorammìa?"
Poi lui rileva una piccola attività e tu lo segui, poi tutto come tutti, i figli crescono, lui, "Gran lavoratore, signorammìa, e le donne, le donne gli son sempre piaciute, l'ho sempre saputo, ma me lo son tenuto lo stesso, e ogni sera torna a casa, sempre e comunque... Io? Bene, insomma, un po' di acciacchi, circolatori e cardiaci, a volte mi manca il respiro, anche se non lavoro più..."
Avete comprato casa, un po' fuori città, quartiere operaio, col mutuo, certo, dopo vent'anni di lavoro, in Sardegna non ci torniamo, che ci facciamo, ormai?

Elegia della normalità.
A tutti i costi.

Sipario.

Occhi neri. E profondissimi.
Li chiudi per sempre a cinquant'anni, lasci questa valle di lacrime, ti sei addormentata e non ti sei svegliata, con un mezzo sorriso sulle labbra, discreta come sei sempre stata, ai limiti della disperazione, come sei sempre stata, elargitrice d'affetto incondizionato, come sei sempre stata.
Dolcissima, come sei sempre stata.

Perché ti scrivo ora? Insomma, mamma, oggi è il tuo compleanno.

Auguri.

Un bacio.


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