Il mio caro Festival

Impermeabile alla vergogna.

Patetico, ignobile, ridicolo, vergognoso, ignominioso, volgare …

Sarebbe addirittura inutile parlarne, eppure sto tentando di cercare un aggettivo che possa, in un sol colpo, definire lo spettacolo della prima puntata sanremese. Il nazional-popolare per eccellenza sta ormai scadendo verso abissi infiniti. Una serie di eventi che sanno di sdoganamento, di traghettamento verso un nulla sempre più dilagante e totale.

Se non si vuole dare peso alle parole, l’inizio pare persino apprezzabile, con il ritorno di Bonolis/Laurenti. Poi, facendo un po’ d’attenzione, ecco che saltano fuori, a mo’ di indice quelli che saranno i temi “caldi” della manifestazione, quasi a voler mettere le mani avanti: “Attenzione che tra poco vedrete questo e quest’altro e, d’altro canto, non vedrete questo e quest’altro.”

Gli elementi di discussione possono essere tanti, partendo da una presentatrice che vuole apparire come la casalinga di Voghera, legge dal gobbo persino le virgole, simula ignoranza su svariate cose, così, per avvicinarsi ad un pubblico imbecille, che in quelle cose sa riconoscersi benissimo e persino senza sentirsi preso per i fondelli. Un Cassano che, persona simpatica e sincera, sembra quasi sia stato messo lì per invitare chi di dovere a lasciarlo giocare in Nazionale, ma che nell’economia dello spettacolo ci sta come i cavoli a merenda, senza contare quella frase magari non ricercata, ma detta: “Comunque tiferò Forza Italia …” … allibito! Un Cutugno che, poverino, non sa più se scegliere di stare in piedi o tenere il tono della canzone, zigzagando tra inutili tentativi di acuto e bassi praticamente inudibili. Un trio, e qui siamo all’apice, formato in maniera cavalleresca da Pupi, Principi e Tenori, una farsa ignobile che fa crescere quel sentimento di odio che almeno la metà degli italiani ha per quell’inutile omuncolo della feccia nobile europea. Viene da chiedersi perché nessuno abbia mai voluto istruirlo su un minimo senso di vergogna e umiltà. Pupo che canta così impegnato, quasi dalla sua bocca stia uscendo la più grande canzone del secolo, mentre incrocia lo sguardo con il Filiberto in un’intesa magari studiata, ma tanto, tanto finta, e poi quell’inutile tenore, di cui nessuno saprà mai il nome, che riesce a stamparsi sorrisi ebeti sul viso nell’istante topico del: “Italia Amore Mio”. Salvo capire, con calma, che il refrain è rubacchiato da “Somewhere Over The Rainbow” e che Pupetto, magari, se la vedrà con una causa di plagio. Andando avanti ecco Nino D’Angelo, uguale a se stesso, esattamente come potevamo aspettarcelo. Eliminato, forse, non tanto per una canzone neppure brutta, ma perché cantata in dialetto e questo è il festival della canzone italiana, non di quella dialettale.

Tra alti e bassi il festival va avanti. Buono Cristicchi che dice sante cose in una canzone abbastanza centrata. Buona, perché anomala, Arisa, anche se l’idea delle Sorelle Bandiera l’avesse già usata Arbore qualche lustro fa. Assurdo, totalmente sproporzionato il voler leggere un frammento del testo di Morgan: chissenefrega! Neppure stesse leggendo un poema di D’Annunzio. No: una vagonata di retorica recitata in maniera totalmente inespressiva, condita da sguardi ammiccanti, come a chiedere il consenso di tutti. No carina, pettoruta, il mio consenso non lo hai. Arriviamo allo strip finale che, pur porco io, pur fantastico il culo della ragazza, trovo sinceramente e totalmente fuori luogo. D’accordo stiamo sparando sulla Croce Rossa e tutto è molto facile. È pure difficile dire qualcosa di nuovo e costruttivo su un Festival che fa dell’impermeabilità alla vergogna il proprio credo. Allora, trovato l’aggettivo?


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