Odore di morte

Dopo quasi tre settimane ci sto facendo ormai l’abitudine, ma non è mica tanto facile. I tasti li devo pigiare di taglio con suono metallico al seguito che mi ricorda l’ingombrante tutore al dito: indice della mano sinistra. Come ha fatto a farsi male, mi chiede? Sembra un disco, mentre batte la tastiera non alzando il capo. Calcetto, rispondo evasivo, con la faccia di chi quella palla alla fine la dovrebbe avere parata, forse. Ma lei non guarda. Peccato. Il calcetto va sempre bene; fino ad una certa età come scusa regge alla grande in una patria di mancati commissari tecnici della nazionale.

Deve essere stato l’odore di quella minuscola e tetra stanza. Odore di morte. Pregnante ed in continua espansione: alla lunga insopportabile. Una zanzara che volteggia a cerchi sempre più concentrici ed ossessivi sulla faccia, proprio vicino all’orecchio, con quel ronzio fastidioso capace di assumere i connotati del trapano del dentista.

Rido mentre lo guardo, perché vorrei vedesse un sorriso. Spero, ma sono certo di sbagliarmi purtroppo, non colga la falsità del gesto: i muscoli facciali infatti mi sembrano di cartone. Minuti come la poesia di Leopardi. Si impossessa di me la necessità di scappare da quel posto. Alzarsi allora, con una scusa patetica; uscire trattenendo il fiato per aprire la porta. Respirare. A pieni polmoni. Brezza che odora di pini, di bosco, di vento d’estate; estate ancora viva, seppur in lento e progressivo declino.

Quando sono nato, qualche giorno in anticipo sul preventivato, mio padre era all’estero. Capitava spesso che per lavoro fosse fuori dai confini nazionali. Nei cruciverba più ostici sa sempre quasi tutte le località: quelle impossibili per chi non ci è mai passato almeno una volta dal vivo. Fatto sta che, mentre stava tornando di corsa in aereo, per un giorno, il mio primo giorno, un caro amico di famiglia fece le veci di mio padre al ospedale.

Ora è lì, claudicante nel passo, ma ancora completamente lucido e presente nella mente. Mentre gli parlo mi sembra di camminare sulle uova, non voglio pigiare tasti dolenti che potrebbero riaprire ferite flebilmente chiuse, ma ancora bisognose di piastrine. Sta seduto in un letto, non il suo, mentre mi risponde e cerca di accettare la situazione. Lui, sempre stato un vulcano in un eruzione, mansueto mi rassicura con lo sguardo. Ha deposto le armi e sta aspettando la fine dei suoi giorni. Non lo riconosco. Senza stimoli ai quali aggrapparsi sono bastati un paio di mesi in compagnia di zombie, pasti che sanno di farmacia e notti che cominciano alle 8 di sera per demolirlo e renderlo così. Un condannato che aspetta un boia che si chiama ictus o infarto.

Generalizzare in certe situazioni è un errore imperdonabile. Scrivo quindi perché conosco il caso specifico e quei suoi due figli. Non hanno problemi economici particolari, hanno una casa loro che stanno pagando e quella paterna, dove ora lui dovrebbe riposare, è vuota. Potrebbero essere la mia fotocopia tra 10 anni. Non ci sono matrimonio, bambini, scuola, weekend e vacanze che tengano. Hanno scelto la strada più comoda: staccare un grasso assegno. E vaffanculo.

Dei biscotti aperti sul comodino anonimo. Anonimo come tutto in questa camera del cazzo che sembra sia caduta nella varechina. Biscotti come ricordo dei figli, del loro grande amore, messi vicino a dei fiori quasi appassiti. Avessi la macchina fotografica con me.

Visite sempre più rade: un po’ come i capelli del padre. Ora dobbiamo andare sai, a voce sempre più alta, le piccole vanno a scuola domani e devono fare i compiti. Solo 5 anni fa vi avrebbe preso a calci in culo. E lo sanno mentre chiudono la porta e buttano giù il rospo ingobbendosi per il peso. Quel rimorso che sale ogni rara volta che tornano e che non si sa come cazzo riescano a cacciare giù prima di andare a dormire.

Forse ho esagerato nella forza oppure forse, ed è più probabile questa ipotesi, l’ho fatto di proposito: un pugno sul muro per ricordarmi che io, nei loro panni, non sarò mai così. Un ingrato pezzo di merda.


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