Sabato nevica

Se ripenso agli anni ’80 – e mi capita ogni volta che ascolto musica anni ’80, oppure quando mi vendono per nuovo il sound di soggetti come LaRoux, che, a parte il nome, non ha poi nulla di così diverso e originale dalla musica di trent’anni fa – ho spesso la sensazione che i miei anni ’80 si siano fermati
alla primavera del 1983. Non mi è successo niente di particolare, nel 1983; però, è l’anno di cui ho più foto, più testimonianze, più ricordi, e quindi l’anno che mi condanno a rivivere ogni volta che incrocio quelle foto, nelle rare occasioni in cui mi oramai mi capita.

Nel tardo inverno del 1983, assieme ai miei, abbiamo fatto una gita in montagna, per vedere l’ultima neve della stagione, assieme alle cime imbiancate di montagne più suggestive nella stagione fredda che d’estate. Come tutti i cittadini persi in un gita fuori porta, non eravamo organizzati; nessuno di noi era lì per sciare, con doposci-berretti-guanti-maglioni-pantaloni-imbottiti: mio padre veniva dal mare, dire collina era come dire montagna nella sua infanzia, a scalare un cavalcavia ti sentivi un campione di ciclismo, gli sci, nel suo mondo, erano un passatempo per ricchi. Quella montagna, raggiunta nell’inverno dell’83, era il suo esotismo, il suo Everest.

L’unica cosa che avevamo, con noi, giacche pesanti a parte, era la macchina fotografica.

All’uscita della funivia, a duemila metri, mio padre mi disse di mettermi sopra un mucchio di terra ricoperto dalla neve, per farmi una foto, riprendendomi dal basso: da ventisette e passa sono inchiodato lì, con le braccia spalancate, tutto il bianco della neve attorno, ed uno spicchio di azzurro dietro di me. Chi riveda oggi quelle braccia spalancate, potrebbe credere che io stessi simulando il volo, all’altezza delle aquile e a duemila metri sopra il mare: io so invece che quel gesto simulava una pubblicità con Mike Bongiorno e la sua “allegria” in cima al Cervino. Ma taccio, e lascio che chi vede ora creda davvero nell’illusione del volo di un me bambino.

Mi dicono che sabato nevica, e che quella montagna sarà sicuramente sotto la neve.

Rivedo il mio sorriso nella foto, la mia allegria presa in prestito dalla pubblicità di un prodotto che i miei non hanno probabilmente mai comprato, e che non mi sono mai sognato di restituire a  Mike. Rivedo tutto il bianco attorno.

Non c’è nulla che dia l’idea dell’infinito, e del possibile, come il bianco, sia esso uno spazio da riempire con un disegno o una frase, una notte da passare persi nei pensieri nell’attesa di un sonno che non verrà prima dell’alba, un muro su cui appendere un poster o la tua foto. Nulla che assorba tutte le forme che possiamo inventarci, verosimili, probabili ed improbabili, così come il bianco è l’assenza di ogni colore, l’attesa di ogni cosa a venire, un momento senza dimensioni, senza spazio e senza tempo, senza limiti capaci di segnare il prima ed il dopo, il dentro ed il fuori.

Melville vede nel bianco l’infinito di un dio inconoscibile, la prova del mistero che non possiamo svelare. Poe descrive la fine di Gordon Pym perso nel bianco glaciale in cui l’infinito dell’orizzonte marino si incontra con l’infinito del cielo, e l’ignoto si manifesta in tutta la sua vastità. Per Kieslowski il bianco è la somma dei contrari, di ciò che si è dato ed avuto, quell’infinito che per alcuni matematici tende allo zero, all’annullamento delle differenze, del dritto e del rovescio, del sopra e del sotto, del giusto e dell’ingiusto, e, forse, anche del bene e del male. Quella stessa LaRoux di cui scrivevo poco sopra – prima di consumare il bianco residuo del mio foglio word – gira nel suo piccolo un video in cui ogni possibile forma geometrica scaturisce dal bianco e dal vuoto, un vuoto dove il 1983 è accaduto esattamente oggi, mentre me la immagino sul palco di Discoring o in finale al Festivalbar.

Nel mio spazio bianco mi accontento di dare l’illusione di un volo che forse non è mai spiccato, conservando il senso dell’allegria che solo il senso di uno spazio aperto può realmente darti, in quella bianca età che sembra ai più fortunati l’infanzia, in cui tutto è da scrivere e nulla è ancora accaduto.

Sabato nevica, e le catene sono l’ultimo dei miei pensieri.


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