Solitudine

Il cellulare è vuoto e così maledettamente pieno di energia: frutto di decenni di progressivo e naturale isolamento. Prima, quando era giovane, gli sembrava fico essere diverso, non avere bisogno di niente e di nessuno, non avere legami duraturi e considerare tutta la gente con la quale veniva a contatto inutile, incolore, insapore e stupida al suo confronto. Ma ora, ingobbito, stanco e grigio pagherebbe per avere un confidente. Qualcuno. E l’incubo della pensione è a solo una manciata di ore di distanza.

Ci sono giorni, ed oggi è uno di quelli, nei quali pensa davvero a come cazzo ci sia finito qui: in fondo a questo fottuto vicolo cieco la cui fine delle pareti di cemento si confonde ormai con il plumbeo cielo di un' anonima città. Si ferma e pensa al senso che finora la sua esistenza ha avuto; non trova una risposta soddisfacente e mentre si sforza di trovarne uno accarezza il cane dentro la giacca. Cammina, ma non se ne accorge nemmeno delle foglie che calpesta, della merda di cane che si appiccica alle suole e del pallone che i bambini gli chiedono di lanciare con urla sempre più acute. Immerso com’è nei suoi pensieri profondi è in un'altra dimensione e si ritrova a poggiare le chiappe lontano, su una panchina isolata posta sul limitare del bosco. Tocca la fredda canna lucida ed è un contatto rassicurante.

Avesse una lampada, la strofinerebbe. Chiederebbe di diventare… un animale selvaggio.

Che vive di istinti. Che quando va in calore, scopa; se ha fame, caccia; se ha sete, va a cercare qualcosa da bere. Cammina per giorni e continua a spostarsi a seconda del clima e delle stagioni. Non ha pensieri filosofici, cazzate cerebrali e menate femminili al di fuori delle necessità impellenti e della mera, durissima sopravvivenza giornaliera. Non ha progetti da realizzare, sogni a lunga scadenza. Nemmeno illusioni da rincorrere che tanto andrebbero comunque irrimediabilmente a puttane. Non deve deludere e rendere conto a nessuno. Se ne sta lì, nel branco, perché così si è sempre fatto e così si farà, anche dopo che lui sarà diventato concime per i vermi. Si muove assieme agli altri simili senza nome e codice fiscale, spinto dall’istinto; ci saranno momenti di giubilo, quando la caccia andrà particolarmente bene e si riempirà lo stomaco di carne grondante e si accoppierà per giorni; di paura, quando rischierà di essere a sua volta sbranato o, peggio, ucciso da quegli strani e lenti animali vestiti; di sofferenza, quando arriveranno la siccità, la carestia e le epidemie. E se sarà proprio parecchio sfortunato invecchierà nel branco fino a quando non sarà più capace di reggere il passo.

Quel giorno arriverà, e come se arriverà, ma sarà l’unico davvero triste della sua esistenza. Verrà lasciato lì senza tanti commiati paraculi. Senza un ospedale con tubi pieni di vita infilati per il corpo sfatto per poter procrastinare la sua ormai inutile permanenza. E’ così che funziona. Lo sa bene ed è una scena che ha già visto parecchie volte. Un paio di giorni e morirà. Un animale selvaggio, abituato al branco, in solitudine ci rimane per poco tempo; solo quello necessario per andarsene.

Sente il calcio tra le dita ed è una bella sensazione.

Ce ne saranno milioni di differenze, ma questa, al momento, gli sembra quella più importante. Noi, sapienti sapienti, moderni e tecnologici, nella solitudine ci possiamo sguazzare tristemente per anni. Perfino per decenni. Apre gli occhi ed invidia con tutto sé stesso quel capriolo senza casa che corre leggero chissà dove, chissà da chi.

Un rumore secco, degli uccelli volano via impauriti. E poi... poi torna il silenzio e scende la sera.


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