
Rock in the Casbah
Il mio kebbabaro di fiducia si chiama…
A dir la verità non lo so.
Nel senso che gliel’ho chiesto un po’ di volte, ma non sono mai riuscito a ricordare e/o a pronunciare correttamente il suo nome.
E così, prima che tutta la faccenda cominciasse a diventare una roba antipatica, abbiamo raggiunto un tacito accordo per cui io non lo correggo quando lui mi chiama (erroneamente) “Mario” e io mi sforzo ogni volta che ci parlo di non usare il suo nome proprio.
Per questo motivo, e ai soli fini di questo editoriale, il mio kebabbaro di fiducia si chiamerà “Rahaal”, che è il nome di un mio amico marocchino e che, quindi, non sarebbe proprio adatto per indicare un turco, ma questo è quello che passa il minareto.
Fatte le presentazioni, è necessaria una precisazione.
Bartletown è un poco più di un paesottone.
Siamo meno di ventimila anime, sparse su un territorio poco più grande di un paio di campi da calcio regolamentari. Roba che è già una fortuna se quando esci dalla doccia non ingravidi per sbaglio la tua vicina di casa o una qualche tua cugina di secondo grado.
A Bartletown abbiamo tutto. Solo che ce l’abbiamo in un unico esemplare.
Abbiamo LA chiesa, IL bar, LA edicola, IL supermercato.
E poi c’è IL panettiere, IL dottore, IL farmacista.
Facciamo un’eccezione solo per GLI stronzi.
Quando, un paio d’anni fa, Rahaal ha aperto “House Kebap” su una delle strade principali del paese, in molti hanno storto il naso. Non dico che IL prete abbia lanciato un qualche anatema durante LA Sacra funzione domenicale. Però capite anche voi, che per una cittadina in cui l’evento più eccitante è stato IL rifacimento del ciottolato nella piazzetta davanti al Municipio nel lontano 2003, l’apertura di un kebabbaro ha rischiato di assumere i connotati dell’invasione da parte delle armate di Saladino.
Tutto questo per dire che, perlomeno nei primi tempi, non è che girasse tutta sta gente da House Kebap…
Io ci sono capitato per la prima volta un venerdì notte di un annetto fa, dopo una serata epica di cui non ho alcun ricordo a parte una tenace infezione alle vie urinarie che conto di riuscire a debellare con giusto un altro paio di cicli di cortisone.
In breve: è tarda notte e sono vittima di una fame da fine serata mostruosa, quando ad un certo punto mi compare davanti un’insegna luminosa con un panino gigante e il Taj Mahaal sullo sfondo. Solo oggi, a distanza di tempo, mi rendo conto che il Taj Mahaal non c’azzecca veramente una mazza con il kebab, ma, al momento, l’unico concetto che sono riuscito a sintetizzare nella mia testa è stato più o meno: In natura, nulla si crea e nulla si distrugge. Tutto è kebab + Taj Mahaal.
Entro e mi becco Rahaal, un ometto sui cinquant'anni con la faccia simpatica e gli occhi buoni, che guarda sconsolato la televisione italiana evidentemente senza capirci un cacchio. Ordino un kebab con ogni condimento possibile e immaginabile, compreso lo sgrassatore per il banco e l’olio esausto per le patatine, Rahaal mi fa notare che il locale sarebbe già chiuso da un quarto d’ora e che stava giusto spegnendo tutto, io scoppio a piangere come un bambino, lui si impietosisce e mi prepara una roba che non è un kebab: è il tuo piatto preferito di sempre, cucinato da tua madre il giorno del tuo ottavo compleanno quando ti hanno regalato la scatola grande dei Lego.
Quella prima sera non abbiamo parlato granché, io e Rahaal. Essenzialmente perché avevo la bocca talmente piena di salsa yogurt che sembravo una vecchia pubblicità della Danone.
Dopo quella prima sera, però, ho iniziato a fermarmi da House Kebap almeno una volta la settimana.
E, dopo le prime settimane, ho iniziato ad andarci anche se non dovevo mangiare: lasciavo la macchina in divieto di sosta con le quattro frecce, buttavo dentro la testa e chiedevo a Rahaal come stava. Lui mi sorrideva forte e diceva qualche cosa di internazionalmente irripetibile sulle tasse e/o su Berlusconi. Io ridevo di gusto e me ne tornavo a casa contento.
Oggi House Kebap è quella che si potrebbe definire un’attività commerciale di successo. Dopo l’iniziale diffidenza, i mie compaesani scimuniti si sono accorti che con € 3,50 ti puoi mangiare un kebab buonissimo e conditissimo che ti toglie la fame chimica e ti fa tirare delle scoregge che tengono lontani zanzare, pappataci e parenti indesiderati fino alla settima e ottava generazione. E così, oggi come oggi, dal venerdì alla domenica, dalle 19:00 alle 21:00, se vuoi un kebab da House Kebab devi mettere in conto almeno mezz’oretta di attesa.
E io ho sinceramente temuto che la fama e la gloria avrebbero cambiato Rahaal e il nostro rapporto. Temevo che non si sarebbe più ricordato di me o del condimento speciale per il mio il panino, che non avrebbe più avuto tempo per dire le sue battute quando passavo dentro a salutarlo senza comprare niente…
Poi, però, l’altro giorno sono ripassato da House Kebap dopo parecchie settimane di assenza. Era domenica sera, all’ora di cena, e il locale era affollatissimo. Ad un certo punto, Rahaal, da dietro il bancone, ha alzato la testa e, quando mi ha visto, ha subito sorriso fortissimo. È andato al lavandino, si è sciacquato le mani e, strafottendosene della gente in coda che smadonnava, è venuto da me per salutarmi.
Lo lo so che la globalizzazione fa schifo e che se avessi davvero a cuore il destino della mia cultura e delle mie tradizioni enogastronomiche dovrei avere la tessera di Slow Food e andare a lanciare le caciotte scadute sulle vetrine dei ristoranti che fanno l’all you can eat. Lo so che, con tutto il ben di Dio che i nostri frigo ci offrono, pensa un po’ se devo andare a mangiare 'ste schifezze che poi sudi al sapore di cipolla per tre giorni.
Però penso che, tutto sommato, in mezzo a duemila Mc Donald’s e seicento Burger King e duecento Old Wild West, magari un posticino per House Kebap lo si può trovare.
Penso che, magari, una globalizzazione a misura di kebabbaro tanto male non può farci.
Penso anche che, se in questi tempi grigi sto paese di merda può essere ancora una buona occasione per qualcuno, non mi dispiace che lo possa essere per gente come Rahaal.