Sul tempo. Ovvero: i miei penultimi cinquantanni.

Mi capita spesso, in questi ultimi anni, di mettermi in testa di fare un esercizio che potrei definire di immaginazione retro-futurista.

Consiste in questo. Chiudere gli occhi e pensare intensamento al mio presente come immaginato dal ragazzo che sono stato, nell'atto di pensare ad uno dei suoi possibili tanti futuri.

Sono convinto che, se mi concentro abbastanza, dopo un po' potrei avere seri dubbi se mi trovo nel 1981 ed immaginare il 2014 o viceversa. Potrei forse recuperare a quel punto del tutto i ricordi e le sensazioni di un istante vissuto di uno di quei giorni lontani. Praticamente potrei tornare ad avere sedici anni, anche se per un tempo molto limitato. Il presente del resto, come affermano famosi scienziati, non e' altro che il passato che riusciamo a ricordare (o immaginare?) con piu' facilita'.

Fra qualche mese compiro' cinquantanni.

A pensarci gli ultimi venticinque anni della mia vita mi sembra siano davvero vola ti.

La percezione soggettiva del tempo trascorso, ne sono sempre piu' convinto, e' soggetta nella nostra mente ad una forma di compressione simile a quella che si fa sui file. Blocchi di vita piu' o meno sempre uguali vengono trascritti solo una volta con un numerino affianco a dire quante volte e' successo, cosi' da occupare meno spazio. E cosi' il tempo trascorso sembra molto meno di quello effettivo, sembra davvero volato.

E' dai sei ai diciotto anni che il tempo sembra davvero incomprimibile, almeno algoritmicamente parlando, almeno quando ci troviamo da quelle parti.

Intanto, senza neanche tanto accorgermene, sono diventato mio padre. E nel mio vecchio ruolo di campione della incontentabilita' ci ho messo mia figlia.

Ora mi limito ad apprezzare le cose che ho, a tentare di non essere troppo pesante in casa (raramente ci riesco) e sul lavoro, ed ogni tanto penso spesso (cit.) al futuro che ci aspetta, con un po' di angoscia possibilmente, vista l'aria che tira.

E qualche volta mi capita di misurare me stesso, noto insensibile, con la commozione che provo pensando a quelli che ho conosciuto e non conosciuto e che sono scesi dal treno, volontariamente o no, prima di arrivare alla fermata dei cinquantanni: artisti, amori, amici di infanzia, quel cantautore americano che in questi giorni non faccio altro che ascoltare su YouTube e riprodurre sulla mia chitarra, cani, tute da ginnastica, retine (quelle nell'occhio) ancora attaccate, cotte, sogni.

Un Aleph degno del racconto di Borges, che spero (quando saro' prossimo ai centanni, vabbe', ai novanta...), di essere cosi' stanco e svogliato da non riuscire a ricordarne la faccia.

Ed allora saro' di nuovo un bimbo appena nato, con gli occhi chiusi, e con un pannolone attaccato al sedere. E una badante ucraina di nome Maria (e' una fortuna che si chiamino tutte cosi', cosi' non c'e' modo di sbagliarsi se ne hai in casa piu' di una) a farmi da mamma.

Kurt Vonnegut nel suo "La colazione dei campioni", alla vigilia dei suoi cinquantanni, libera tutti i personaggi dei suoi romanzi. Io molto piu' modestamente mi sono limitato a liberare i miei pensieri.

Non dimenticatevi di me quando sarete lontani.


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