Lisbon state of mind

Non c’è dubbio che io, a diciotto anni, fossi (già) una persona strana.

Per il mio compleanno, invece di feste con tanti invitati quanto potrebbero essercene a un matrimonio, mi feci regalare un viaggio a Lisbona con i miei.
Erano i primi di settembre, di certo non sapevo che quel viaggio, a posteriori, mi avrebbe segnata tanto.

Ma ricordo perché avevo scelto Lisbona: Pessoa, il suo Livro do Desassossego, il Libro dell’inquietudine tradotto da Tabucchi, aveva già scavato un solco nella mia adolescenza, nella mia anima e nelle mie tasche: me l’ero portato ovunque, era l’unico libro in italiano che mi aveva seguita nel mio anno in Norvegia, quando avevo diciassette anni, e ha ancora il suo posto d’onore sulla mia libreria, tenuto come un cimelio, neanche troppo spiegazzato.

Di quel viaggio ricordo tanto caldo e tanta pioggia.
Tantissima, come raramente ho visto piovere nella mia vita, tanta pioggia da costringerci, una sera, ad aspettare mezz’ora rintanati nel foyer del Teatro Politeama.
Ricordo anche tanta insonnia da crampi da disidratazione: le salite di Lisbona non perdonano.
Ricordo gli amici pigri e rompiscatole dei miei che viaggiavano con noi.
Ricordo un senso di incompleto, di amaro in bocca, di non visto che mi lasciò quel viaggio.

Soprattutto, ricordo una sensazione di meraviglia, la sorpresa per la luce accecante sul lastricato nel primo pomeriggio, l’incanto per la lingua meravigliosa e strascicata dei portoghesi, la grandezza dell’oceano di Cascais, il profumo di pesce e la puzza di baccalà, l’odore di dolci appena sfornati. Il fascino di quella decadenza malinconica che pervade ogni angolo della città e che ti entra dentro o ti ripugna.
Le stesse sensazioni che ho provato ogni singolo giorno quando a Lisbona ci sono tornata in Erasmus.

La voglia di tornare.

A Lisbona, poi, ci sono tornata in un altro viaggio, ci ho vissuto per cinque mesi, e sono castigata ogni giorno da quel sentimento pieno di sospiri che è la saudade, un sentimento tutto portoghese, di cui Lisbona rappresenta la concretizzazione.

Nella vita, io non mi sono mai innamorata, se non di Lisbona e del Portogallo. Del portoghese, a cui mi dedico da cinque anni e che mi hanno impedito di continuare a studiare, strappandomi un pezzettino di cuore. Di Pessoa e del suo Libro dell’inquietudine, quella reliquia della mia adolescenza su cui ho scritto pagine e pagine inutili di tesi.

Di quel viaggio a Lisbona conservo ancora un piccolo dettaglio, un libro che mio padre contrattò con il commesso di una libreria antichissima (l’ho scoperto dopo, detiene il Guinness come libreria in attività più antica del mondo), parlandogli in italiano.
Era un libro di poesie, un’antologia, ovviamente di Fernando Pessoa.
Sfogliandolo, ore dopo, scoprii con rammarico che era difettoso, che mancavano alcune pagine, rimaste bianche, e che non avrei potuto cambiarlo. Cercai comunque di comprenderne il contenuto, aggrappandomi ai pochi appigli che quella lingua che ancora non conoscevo mi offriva.

Mai avrei pensato che il futuro fosse scritto tra le pagine bianche di un libro stampato male.




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