E correndo mi incontrò lungo la via

Celeste, la conobbi all’Università.

Un bel viso, contornato da capelli a spaghetto, neri come la pece, su un corpicino esile e dai fianchi stretti. Ci laureammo nella stessa sessione e spesso, prima degli esami, provavamo ad interrogarci dopo le ore passate sui libri e a chiacchierare dei piccoli e dei grandi sistemi.
Imparammo a conoscerci grazie alla sincerità di entrambi e compresi quanto basta del suo carattere per farmi l’idea che fosse, già allora, una ragazza dalla mentalità molto aperta e disponibile.

Dopo la laurea, lei si trasferì nel viterbese a lavorare con il padre separato e io me ne restai in Veneto.
Da allora non la vidi più e dopo qualche cartolina, qualche lettera e qualche telefonata, finimmo anche per perdere le tracce l’uno dell’altra.

Sapevo che nel periodo natalizio solitamente tornava dalla madre, ma per un motivo o per un altro non riuscimmo più ad incontrarci.
Quasi mi dimenticai di lei.

La scorsa notte di capodanno, c’era una festicciola nella piazza del nostro paese, un po’ riluttante mi recai a fare due salti e il brindisi con un paio di vecchi amici. A pochi passi da me, seduta sul bordo di un muretto, vidi una signora con capelli a spaghetto, neri come la pece. Immediatamente pensai a Celeste.
Poteva esserlo e poteva non esserlo, la osservai per qualche minuto. Aveva attorno a sé diversi ragazzi e ragazze, che la coinvolgevano in maniera molto allegra e ridanciana. Due di questi ragazzi erano chiaramente omosessuali e amoreggiavano, baciandosi e strofinandosi, in modo piuttosto esibizionista e volgare.
Celeste li guardava e quando loro la guardavano sorrideva. Solo il tempo di far sciogliere il sorriso e il viso diveniva cupo e pensieroso, quasi mesto. Poi un altro sguardo e poi un altro sorriso. Un breve lampo e di lei si impadroniva ancora un velo di tristezza, che appariva profonda e indelebile.

Poi mi vide.
Urlando mi corse incontro, mi abbracciò e mi baciò sulle labbra con un trasporto che mi parve persino anomalo. Ne erano passati di anni, più di venti. Brevemente mi raccontò della sua tribolata vita, di guai legali lunghi, ma risolti, di una vita sentimentale sostanzialmente inesistente e di avere avuto tre figli da tre padri diversi.
Li chiamò e me li presentò, così realizzai che il maschio, il più grande dei tre, era proprio uno dei due omosessuali visti prima.

“È triste”, mi disse “ma, da mamma, per quanto di mentalità aperta e di larghe vedute, messa di fronte al problema reale, già da oltre un anno, so che non arriverò mai ad accettare completamente e nel profondo il fatto. Ci sarà sempre qualcosa che mi farà fare buon viso a cattivo gioco e non potrò più essere me stessa nei confronti di mio figlio.”

Poi i ragazzi la trascinarono nelle danze, si allontanò gridandomi: “Sono da mia mamma, chiamami.”



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