The Tell-Tale Hearts: "(You're a) Dirty Liar" (Calhoun/Stax) 1983 demo.
Un branco di ragazzacci con grandi nasi e facce da pizza.
La definizione è di Gwynne Kahn, all’epoca tastierista nelle Pandoras.
In realtà si trattava della migliore mid-80’s garage band dell’area di San Diego. Lontano dall’oltraggioso teen-punk dei Gravedigger V e dalla demente violenza dei Morlocks, i Tell-Tale Hearts erano nati per soddisfare l’esigenza di Mike Stax di suonare come i Pretty Things di Get the Picture?.
E fu esattamente così che per tre anni e mezzo questi cinque figli di puttana riuscirono a suonare, uno stordente cocktail a base di Pretty Things, Q65, Outsiders e Shadows of Knight e di altre lordure R ‘n B assortite, una full immersion dentro una selva di maracas, armoniche blues che tagliano come lame e riverberi da caverne troglodite che appagavano quel bisogno che Mike sentiva montare sin dai vecchi noiosi pomeriggi inglesi, appena mitigato dall’esperienza con i Crawdaddys e condiviso con Ray Brandes e il compagno di classe di quest’ultimo (nonché boyfriend della di lui sorella, NdLYS) Bill Calhoun. Non erano le uniche cose che Bill e Ray condividevano: c’era di mezzo pure lo stesso gruppo, una delle tante retro-bands che stanno popolando il paese in quegli anni e chiamati Mystery Machine.
È da quella batteria che fanno scendere David Klowden, per sederlo sullo sgabello del nuovo gruppo.
Eric Bacher era invece un perditempo che si dilettava a suonare negli sconosciuti Freddie & The Soup Bowls e che da un po’ di tempo aveva preso a frequentare con insistenza il 2378 della Presidio Drive, villetta uguale alle mille altre piazzate a schiera in uno dei quartieri residenziali della città. È lui il quinto uomo per quella che diventerà la band del “cuore rivelatore”, nome razziato dal libro di Poe in cui Stax annega la frustrazione per lo split dei Crawdaddys. Un gruppo dalle potenzialità enormi ma anche con troppi vincoli e regole da rispettare.
La nuova band sceglie di averne una soltanto: non averne alcuna.
Quando salgono sul palco, i Tell-Tale Hearts sono un branco. Con Ray intento a latrare come un cane e scuotere come un ossesso le sue maracas, Bill che spesso abbandona l’impalcatura arrugginita del suo organo VOX per lanciarsi in urticanti fraseggi di armonica blues, Eric alle prese col suo jungle-beat affogato nel fuzz, l’efebico Mike con la sua collezione di bassi vintage e i suoi urli da caveman in calore, David perso dietro un minuscolo kit di batteria, a pestare come piedi di contadina in un mortaio.
Tutti ugualmente indispensabili.
Cinque ragazzini infoiati con una vanga da becchino nascosta dentro le mutande.
È con quella che spaccano la crosta molle del rock da Odissea per calarsi nei cunicoli che li portano al cuore delle minuscole garage bands degli anni ‘60. È da lì che si inizia, registrando una demo presso lo Studio 517 di San Diego con pezzi rubati dai polverosi 7” collezionati da Mike. Il primo pezzo autoctono è firmato Stax/Calhoun e si intitola Dirty Lia
Un branco di ragazzacci con grandi nasi e facce da pizza.
La definizione è di Gwynne Kahn, all’epoca tastierista nelle Pandoras.
In realtà si trattava della migliore mid-80’s garage band dell’area di San Diego. Lontano dall’oltraggioso teen-punk dei Gravedigger V e dalla demente violenza dei Morlocks, i Tell-Tale Hearts erano nati per soddisfare l’esigenza di Mike Stax di suonare come i Pretty Things di Get the Picture?.
E fu esattamente così che per tre anni e mezzo questi cinque figli di puttana riuscirono a suonare, uno stordente cocktail a base di Pretty Things, Q65, Outsiders e Shadows of Knight e di altre lordure R ‘n B assortite, una full immersion dentro una selva di maracas, armoniche blues che tagliano come lame e riverberi da caverne troglodite che appagavano quel bisogno che Mike sentiva montare sin dai vecchi noiosi pomeriggi inglesi, appena mitigato dall’esperienza con i Crawdaddys e condiviso con Ray Brandes e il compagno di classe di quest’ultimo (nonché boyfriend della di lui sorella, NdLYS) Bill Calhoun. Non erano le uniche cose che Bill e Ray condividevano: c’era di mezzo pure lo stesso gruppo, una delle tante retro-bands che stanno popolando il paese in quegli anni e chiamati Mystery Machine.
È da quella batteria che fanno scendere David Klowden, per sederlo sullo sgabello del nuovo gruppo.
Eric Bacher era invece un perditempo che si dilettava a suonare negli sconosciuti Freddie & The Soup Bowls e che da un po’ di tempo aveva preso a frequentare con insistenza il 2378 della Presidio Drive, villetta uguale alle mille altre piazzate a schiera in uno dei quartieri residenziali della città. È lui il quinto uomo per quella che diventerà la band del “cuore rivelatore”, nome razziato dal libro di Poe in cui Stax annega la frustrazione per lo split dei Crawdaddys. Un gruppo dalle potenzialità enormi ma anche con troppi vincoli e regole da rispettare.
La nuova band sceglie di averne una soltanto: non averne alcuna.
Quando salgono sul palco, i Tell-Tale Hearts sono un branco. Con Ray intento a latrare come un cane e scuotere come un ossesso le sue maracas, Bill che spesso abbandona l’impalcatura arrugginita del suo organo VOX per lanciarsi in urticanti fraseggi di armonica blues, Eric alle prese col suo jungle-beat affogato nel fuzz, l’efebico Mike con la sua collezione di bassi vintage e i suoi urli da caveman in calore, David perso dietro un minuscolo kit di batteria, a pestare come piedi di contadina in un mortaio.
Tutti ugualmente indispensabili.
Cinque ragazzini infoiati con una vanga da becchino nascosta dentro le mutande.
È con quella che spaccano la crosta molle del rock da Odissea per calarsi nei cunicoli che li portano al cuore delle minuscole garage bands degli anni ‘60. È da lì che si inizia, registrando una demo presso lo Studio 517 di San Diego con pezzi rubati dai polverosi 7” collezionati da Mike. Il primo pezzo autoctono è firmato Stax/Calhoun e si intitola Dirty Lia
Carico i commenti... con calma