E’ il disco che riaffermò con forza, nel 1973, questa formazione del tastierista britannico di origine sudafricana Manfred Mann sul mercato discografico, dopo i buoni successi degli anni sessanta nel mercato dei 45 giri pop. Nuova la denominazione di gruppo ma anche del genere musicale perseguito: siamo in piena era progressive e l’ottimo Mann si adegua, visto pure che le sue tastiere diventano giocoforza ancor più centrali.
L’opera è guidata, anzi dominata dalla sua lunga canzone introduttiva, una cover di Bob Dylan stravolta in meglio, diciamo pure autenticamente rivoltata come un calzino e riempita di succose variazioni. S’intitola “Father of Day, Father of Night” e il suo originale dylaniano sta sul suo “New Morning” del 1970, col titolo dimezzato e nella forma di un minuto e mezzo, non di più, di svelta preghiera ebrea, condotta al pianoforte e con la caratteristica voce nasale di Bob che a un tratto si perde la melodia e conclude il quarto verso delle strofe alla bell’e meglio (o alla pene di segugio, pensano i diversamente ammiratori del nostro, me compreso).
Manfred Mann e i suoi invece la prendono, la stabilizzano in un andamento lento ed evocativo, la affidano per il canto al loro chitarrista che provvede a focalizzarne la melodia anche in quegli ultimi versi pigramente tirati via dal celeberrimo menestrello del Minnesota. Dopodiché vi è lo “stiramento”, in stile progressive, fino ai quasi dieci minuti, operato soprattutto tramite un lungo intermezzo strumentale (dopo che solo l’intro già si era portato via un minuto e mezzo… come l’intera versione dylaniana!). Ci pensa un esteso assolo di chitarra in crescendo a fare il grosso del lavoro, seguito da un altro del leader sul moog synthesizer e, nel mezzo, ulteriori variazioni strumentali.
Il resto del disco offre qualche buono spunto: “In the Beginning, Darkness” è un rock blues psichedelico che sa più di anni sessanta che settanta. “Pluto the Dog” è un breve strumentale dominato dal synth del leader e da un… bracco che abbaia, come il titolo giustifica. Il brano che intitola tutto l’album è un teso rock blues cantato da tre voci che si inseguono e rispondono. “Saturn, Lord of the Ring Mercury the Winged Messenger”, altro strumentale pretenzioso sin dal titolo e pluripartito, sa molto di colonna sonora di una pellicola avvincente. “Earth, the Circle” è scomposta in due parti ma con la seconda che precede la prima, così, tanto per essere estrosi. La “part 1” è pure cantata, da Mann stesso e sa di vecchi Pink Floyd.
Ennesima esponente di quella lunga serie di opere sessanta/settantiane che dimostrano come una volta si riuscisse a pubblicar musica che talvolta indulgeva assai, senza che la casa discografica mettesse troppo i bastoni fra le ruote per tutti quegli assoli, quelle parti strumentali, quelle prolissità, “Solar Fire” sa di vecchi tempi (migliori) e della relativa libertà artistica che essi si portavano dietro. La versione in cd è chiusa dalla bonus track “Father of Day…” in versione singolo, ridotta a soli tre minuti… abominio! Bellissima la copertina interstellare.
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