Saranno anche incandescenti come il metallo fuso, ma questo disco dei Manowar, continua a palesare (ascolto dopo ascolto) la propria anonimia e inutilità. Uscito a cinque anni di distanza dal discusso Gods of War, e a soli cinque mesi dalla versione digitale di questo stesso disco (la Hammer Edition, peraltro egregiamente screditata in questo sito), il formato fisico di The Lord of Steel si presenta dopo il preambolo d’una falsa promessa del mancato politico Joey DeMaio. Nel 2007, infatti, poco dopo l’uscita di Gods of War (lavoro concettualmente legato ai miti nordici), il bassista americano dichiarò ad una rivista di stampo hard rock/ heavy metal (la nota Flash, che ora sembra aver chiuso i battenti, almeno per quanto riguarda la versione italiana) che l’album era il primo atto di una trilogia basata sui miti europei, al quale sarebbero susseguiti altri due dischi focalizzati sulla mitologia greca e romana. Nulla di tutto questo è successo, forse perché parte del pubblico sembra non aver sopportato i pomposi e “Wagneriani” arrangiamenti sinfonici che imbastivano il precedente album. Proprio per questo, The Lord of Steel torna ad essere genuinamente metallico, oltre che nitidamente mediocre.

Per pubblicare un album come questo bisogna essere degli eroi. Nel senso che ci vuole coraggio a mettere in commercio una ciofeca del genere. Disco scarno, sciatto, manieristico e sfacciatamente opportunista (a quest’ultimo aggettivo potete però far fronte con una sana insurrezione generale: non compratelo). The Lord of Steel si presenta come il fratello minore del tamarro e mediocre Louder Than Hell, riuscendo in un’impresa in grado d’affiorare i più tristi arbusti della scarsità umana: essergli addirittura peggiore! E poiché una serie di brani penosi non bastava a gettare ingenti dosi di stress emotivo nei timpani dell’ascoltatore, ecco che anche la produzione è puntualmente impataccata a dovere: DeMaio, col suo fedelissimo basso da passeggio, spara il suo strumento a volumi altissimi al fine d’impegnare costantemente l’ascoltatore a regolare i bassi del proprio stereo per non prenotarsi un esame nello studio di audiologia più vicino. Ma il vero miracolo è un altro: questo basso, molesto come un branco di pachidermi che soffoca con le natiche i suoni di tutti i diffusori acustici del panorama digitale, riesce talvolta a sovrastare ogni altro strumento! D’accordo che il basso è sempre stato molto in rilievo anche negl’altri lavori del gruppo, ma in questo caso si è raggiunto guglie d’esagerazione mai toccate prima da un comune mortale, una scelta governata solo dal mero esibizionismo di Joey, piuttosto che a motivi di “poetica sonora” visto che, l’unico pezzo ad acquisire del fascino con quest’audio è Born in a Grave, un tetro e solenne mid-tempo dal mood demoniaco. La cosa però non funziona con gl’altri brani, facendo perdere ad essi ulteriori punti; basta ascoltare la title-track d’apertura per rendersene conto, brano che però mette in risalto Donnie Hamzik che non militava in studio coi Manowar dai tempi del debut, drummer più articolato rispetto a Scott Columbus (R.I.P.). Il risultato però non cambia: opener musicalmente discreta ma fiacca e priva di quella carica che il gruppo ha saputo sprigionare in passato. Stesso discorso per Manowarriors, brano aperto da un acuto di Eric Adams, che in questo disco limita le note alte, per cantare più spesso con toni bassi e rochi. Ciò nonostante la sua prestazione rimane, nel complesso, buona sebbene il pezzo non decolli mai: una cavalcata heavy dal testo imbarazzante, ossia una pesante lode ai fan della band, in particolare a tutti quei quindicenni pieni di borchie e brufoli disposti a sborsare 100 euro per vedersi al binocolo la loro band preferita. Contenti loro!

E la sciagura non è finita qui! La quarta traccia si chiama Righteous Glory; smorta ballad che sarebbe d’annoverare fra i pezzi più scoordinati della storia della musica, a causa del suo mancato legame fra composizione e testo: un inneggiamento all’odinismo fatto in un’acciaieria, praticamente. Sembra quasi un frammento incompiuto di Gods of War, aggiunto a questo disco come riempitivo, come se i sette minuti della massiccia e cadenzata Black List non fossero già abbastanza noiosi, mentre Expendable e Annihlation restano due canzonette che seguono le orme sonore di quest’ultima suite, essendo accattivanti nelle ritmiche, ma povere nei contenuti. Il disco procede verso il finale, con un Karl Logan che di tanto in tanto esce allo scoperto con alcuni guitar solos concessi dalla magnanimità del basso, che continua prepotentemente a sovrastare ogni cosa, mentre le casse infondono le tragicomiche note della penultima Hail Kill and Die, pretenzioso riciclo sonoro sul quale si stende un testo autocelebrativo che solca le lande del ridicolo. E a chiudere questa Final Edition, abbiamo un pezzo inedito quanto inutile: una The Kingdom of Steel che sembra una nenia per rincoglionire i bambini prima di rimboccargli le lenzuola.

Non tutti i pezzi sono stati citati, d’altronde quanto emerge nelle righe qui sopra è abbastanza per capire che si tratta di un album buono solo per un headbanging in compagnia, o da ascoltare in sottofondo mentre si sta facendo qualcos’altro. Nell’udirlo non serve avvalersi d’una profonda concentrazione, proprio perché la profondità non c’è, e nemmeno v’è traccia dell’arte del lontano passato, così come del vicino presente. Nessun segno della potenza e dell’onore di The Triumph of Steel, e nemmeno della sobria raffinatezza di Gods of War. E intanto, il glorioso epic degli esordi giace in una landa perduta…e non ne vuole sapere di risorgere.

Federico “Dragonstar” Passarella.

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