500 giorni insieme.

Prefazione: questa volta ho davvero paura a pubblicare questa recensione. 

Una sera ero particolarmente depresso e, non sono bene perché, decisi di rivedere questo film di cui avevo, tutto sommato, una vaga impressione piuttosto piacevole.

L’impressione non è stata riconfermata.

Un film fastidioso. Innanzitutto è fatto per filo e per segno per una ben definita categoria di ggiovani, comunemente definita Hipster (ci vorrà la maiuscola? Vogliamo dargli così importanza? Sarà che i nomi inglesi ispirano timore).

Dalla musica che ascoltano (di cui tessono continue lodi) agli abiti che indossano, dalle bevande che consumano alle case che abitano, questo film trasuda di alternativismo da ventunesimo secolo.

Non è girato male, questo no, alcune scene sono davvero notevoli, ma risulta nel complesso un film snob, in quanto dedicato ad uno specifico pubblico ristretto.

Voglio dire: un dipinto di questi bravi ragazzi, convinti di essere trasgressivi e ribbelli, ma nel giusto, in realtà appartenenti a quella mentalità piccolo borghese che tanto sembrano criticare.

L’omologazione dell’anticonformismo. Io non seguo le mode, il tuo gruppo fa cagare perché vende, oh ma che bello ascolti anche tu la mia musica, oh ma che bello parliamo come due deficienti, siamo convinti di trovare la poesia in tutto, andiamo all’Ikea e facciamo finta che siano nostri i mobili esposti, perché siamo sì adulti responsabili, ma con un eterno animo da bambino.

Che bello, come ti amo. Mi ami? Ma quanto mi ami?

Capirete che dopo un’ora e mezzo hanno rotto i coglioni. E’ decisamente irreale. Propone il classico modello a cui tutti questi giovani hipster aspirano. Ma è un modello inesistente, che fa di tutto per spacciarsi vero. Keep it real, come si diceva un tempo in ambienti Hip Hop. “Keep it real un cazzo” replicavano certi scettici.

Poi, ripeto, vi sono notevoli e numerose chicche che fanno apprezzare il film (le parodie dei film impegnati) ma si sopravvaluta. Pompa a mille il “questa non è una storia d’amore”, per poi scadere sul classico lieto fine americano. Come al solito, nel suo voler essere alternativo a tutti i costi, finisce per essere il più banale.

Certo, non è male neanche l’interpretazione di Joseph Gordon-Levitt, anche se non è neanche lontanamente vicina al livello toccato in  “Hasher è stato qui”. Zooey Deschanel rimane pur sempre una gran topa e una buona attrice. Già più insolenti sono gli amici idioti del protagonista,  Geoffrey Arend su tutti, che risulta inguardabile (specialmente nella scena in cui è ubriaco. Un ubriaco non fa così, che cazzo).

Insomma, non è un filmaccio, è semplicemente fastidioso.

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