Grande ritorno anche per i Marillion, altra band che non ha bisogno di presentazioni, dopo un periodo di assenza anche per loro abbastanza significativo, quasi 6 anni. Li avevamo lasciati con l’imponente e vellutato “F.E.A.R.” e in quella direzione proseguono.
I Marillion in mano a Steve Hogarth si sono sempre contraddistinti per un sound delicato e d’atmosfera ma non sono mancati i momenti più rock e la ricerca sonora. “An Hour Before It’s Dark” non stravolge quella formula che caratterizza gran parte della produzione del combo inglese: le chitarre che si manifestano quel tanto che basta, le tastiere leggere, vellutate e fresche, la voce melodica ma decisa di Hogarth, sono andati abbastanza sul sicuro e questo è per loro una garanzia. In particolare qui si sceglie di ricalcare la struttura del precedente album: pochi brani ma tendenzialmente lunghi, alcuni sono suite in miniatura composte da più parti, esattamente come in “F.E.A.R.”, e anche qui queste composizioni sono state spezzate in distinti file audio, scelta che reputo sempre ampiamente discutibile; ciò che è unico andrebbe lasciato in un unico file audio, si rischia di frammentare il discorso e di far credere al pubblico di trovarsi di fronte ad una serie di brani distinti anziché di un unico discorso musicale; nel nostro caso soprattutto le prime due composizioni filano lisce e scorrevoli e non sono nemmeno particolarmente lunghe, non c’è nulla che ne giustifichi la frammentazione.
Andare sul sicuro comunque non è un problema, le composizioni e le melodie rimangono di alto livello e la band ci mette dentro tutti i suoi 40 anni di esperienza. Quello che preoccupa un po’ è il rischio che il sound della band rimanga fermo su questi cliché e non vada oltre, ma ammetto che probabilmente non si potrebbe chiedere troppo dopo 40 anni. In passato la band osava un po’ di più, specie negli anni ’90, pensiamo al pop-rock di “Holidays in Eden”, alla varietà di soluzioni di “This Strange Engine”, al brit-pop inusuale di “Radiation” o all’indie-rock di “Marillion.com”; la mia domanda è… ci regaleranno ancora qualcosa di un po’ più diverso o diversificato?
La band però sembra quasi essersi resa conto di dover inserire qualche elemento diversificante, e lo notiamo ad esempio nei sottili suoni luminosi di “Be Hard on Yourself” (che se non fosse per il tocco delicato rimanderebbero addirittura a “Seasons End”), nei synth abbastanza corposi di “Murder Machines” o nella sezione iniziale quasi trip-hop di “Care”.
Ma evitiamo di essere troppo esigenti, è un disco che rende piena giustizia ai Marillion, che li mostra in tutto il loro splendore e ci va più che bene.
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