C'è un passaggio del film che illumina una questione ineludibile quando si parla di Leopardi: uno dei critici appartenenti alla giuria che doveva scegliere il vincitore di un certo premio letterario critica i contenuti delle opere di Giacomo, sia per la ripetitività dei concetti sia per il pessimismo del pensiero, ma aggiunge in fine che «lo stile è bellissimo». Quello che fa Martone è illustrare, certo per sommi capi, il pensiero e la vita del poeta recanatese, ma sottraendo la consolazione della bellezza poetica. Infatti le citazioni da poesie non abbondano e solamente L'infinito e La ginestra sono recitate nella loro interezza. Venendo meno per lunghi tratti la dimensione lirica, il film si trova giocoforza costretto a seguire le traiettorie sofferenti dell'esistenza del poeta; in questo modo, la pellicola si rivela claudicante quanto il suo protagonista. Con questo non intendo esprimere un giudizio negativo, ma indicare l'andamento ritmico e narrativo dell'opera.

Tolta la poesia, del Leopardi resta da raccontare la vita: Martone insiste sulle sofferenze fisiche, che soprattutto nella seconda parte dominano le sequenze, ma tenta anche di illustrare il sistema filosofico del poeta. Se da un punto di vista esteriore la figura di Leopardi è ben delineata e soprattutto interpretata con passione e misura dall'ottimo Elio Germano, la dimensione del pensiero leopardiano vive di guizzi, di pennellate che suggeriscono qualche cosa ma non arrivano a mostrare con puntualità la fondatezza e la razionalità del pessimismo del poeta. Un esempio su tutti: delle Operette morali si parla tanto, ma in modo superficiale; se ne sente discutere in varie occasioni ma non c'è un momento in cui si esponga, anche sinteticamente, la profondità e la forza delle argomentazioni presenti nell'opera.

Sta qui la cifra del film: non si sfiora nemmeno l'idea di illustrare realmente il pensiero leopardiano. Lo si dà per scontato e si preferisce polarizzare l'attenzione su elementi più facilmente riproducibili attraverso il codice espressivo cinematografico. Di qui la felicità estetica della prima metà, che si polarizza sugli anni recanatesi della giovinezza del poeta e vive dei contrasti dello stesso col padre, dell'insofferenza per il soffocante ambiente provinciale e per i concittadini, del desiderio di vivere una vita più vivace. La presentazione degli aspetti macroscopici ed estrinseci della vita del poeta è compito semplice rispetto al sondaggio delle vaste profondità del suo pensiero. Per questo motivo, quando Martone avrebbe dovuto tirale le fila del discorso giungendo alla spiegazione del pensiero leopardiano, che è il vero protagonista della sua vita, si avverte un senso di mancanza; è come se nella seconda ora di film il regista non sapesse bene come riempire il tempo e si perde quindi in mille fatti collaterali, molto meno importanti dell'evoluzione delle idee di Giacomo.

Va bene non cedere alla faciloneria di riempire il film con i versi dei Canti, ma ad esempio qualche stralcio in più delle Operette morali avrebbe dato consistenza alla pellicola: ci troviamo invece a dover assistere a rovelli pessimistici senza sentirne mai trattare con vero approfondimento i motivi. Come dicevo, la filosofia di Leopardi viene punteggiata qua e là con brevissimi accenni, per lo più in dibattiti coi numerosi lettori che ne contestano il pessimismo. Questo non perché il pubblico abbia bisogno di farsi rispiegare un autore che tutti studiano (e apprezzano, viste le cifre al botteghino), ma per una semplice questione di efficacia espressiva della pellicola: è chiaro che in un film biografico come questo, tutta la dimensione puramente narrativa è fortemente smorzata. Non c'è un finale risolutivo a cui tendere, ma non ci sono nemmeno molti snodi di trama; è evidente che tutto si gioca sul raffigurare un profilo, e per molti aspetti Martone ci riesce, ma non nel raccontare i cardini del suo sistema filosofico.

La figura umana che emerge è comunque ben caratterizzata e toccante; meravigliosamente narrato è il rapporto con Fanny, il carattere schivo ma generoso e fremente del Leopardi viene dipinto con toccante espressività (il pianto in riva al lago con inquadratura ampia è magnifico). E poi ancora il tenero affetto che lo legava a Pietro Giordani e al Ranieri. L'amore/odio verso il padre Monaldo; la sacralità della scrittura, il senso di soffocamento nella casa di Recanati (il «paterno ostello»); e poi ancora la testardaggine quasi fanciullesca nel mangiare gelati anche contro le indicazioni del medico, l'attrazione magnetica che la Luna esercitava su di lui, il desiderio ardente e sempre frustrato di essere amato. Insomma, l'affresco umano è articolato e ben reso dall'interpretazione di Elio Germano. Dispiace solo che manchi di approfondimento vero nello spazio del pensiero filosofico.

Questa selezione produce un effetto che forse è anche l'elemento modernizzante della figura leopardiana: il poeta non appare quasi mai come un erudito di prima statura, questa dimensione viene sì trattata ma ben presto accantonata; domina largamente la cifra lirica e romantica del suo profilo. Il rigore degli studi viene sì mostrato nella parte ambientata a Recanati, ma è largamente sottomesso alla problematicità esistenziale del giovane. Di conseguenza risulta difficile credere alle sue parole quando dice che il suo pensiero non è influenzato dalle sue sofferenze fisiche: Martone ce le mostra per lunghi tratti, riempie grandi spazi con immagini di dolore fisico e spirali di malinconia inesorabile. Risulta certamente ostico per lo spettatore non far prevalere questa dimensione intima ed esistenziale sulla finezza del pensiero e sulla vastità delle sue argomentazioni, che invece quasi non compaiono nel film.

Dal punto di vista estetico, la macchina da presa si muove con grande eleganza negli scenari di Recanati, valorizzati da una fotografia che punta a fornire immagini d'icastica definitezza, con chiaroscuri netti e potenti, oppure rapide svisate su paesaggi naturali affascinanti quanto desertificati dall'amarezza delle riflessioni lì sviluppate. Anche le sequenze napoletane godono di scelte funzionali; una su tutte, la pervasività di un rosso quasi sanguigno nelle notti libertine, sublimato poi dall'immagine del Vesuvio che erutta, tassello conclusivo ben posizionato a mo' di cesura del lento e francamente sfiancante processo di consunzione fisica del poeta.

Le parole della Ginestra godono di un montaggio intellettuale quanto mai necessario; è lì il senso profondo del pensiero leopardiano, nell'immagine del pianeta Terra che si perde nel Cosmo. I versi immortali delle sue poesie si stagliano direttamente nelle immensità dell'Universo. Per rappresentare la grandezza della sua poesia e del suo pensiero non sarebbero serviti attori; solo immagini del Cosmo e della sua indifferenza verso l'umanità. Martone però ha scelto di narrare soprattutto l'uomo; nel suo intento riesce discretamente bene, con qualche chicca che avrà fatto piacere ai letterati (le risate che si fa quando racconta ad un amico dei suoi Paralipomeni della Batracomiomachia) e tutto sommato una precisione cronachistica che non era così scontata. C'è da dire che la narrazione non procede gradualmente ma prende due macro-sezioni e le giustappone, togliendo anche qui qualcosa all'evoluzione del pensiero e dando risalto invece ai cambiamenti esistenziali tra i due diversi contesti. Il ritratto che va a formarsi è ricco, sfaccettato, nitido; è quasi incredibile che selezionando così arditamente i contenuti Martone sia riuscito a produrre più di due ore di pellicola senza quasi mai sfociare nella noia, pur trattando una biografia non esattamente rocambolesca. La bravura del regista è indubbia, ma la scelta di propendere per il lato umano, riducendo all'osso le questioni filosofiche, rimane un problema non da poco che impedisce al film di spiccare il volo.


7/10

Carico i commenti...  con calma