Un film che fa rifiorire l'amore per il cinema... e lo fa raccontando il teatro. Martone recupera la sacralità della visione, ormai quasi ai minimi termini in questi ultimi tempi di sale chiuse e piattaforme, recupera quell'elettricità nell'aria di una platea che è luogo di vita per gli attori, ma anche per il pubblico che interagisce e dialoga con loro, e persino per tutti quelli che stanno dietro le quinte. Quella tensione artistica non può essere altrove, è lì e soltanto lì lo spazio vitale degli Scarpetta, di un giovanissimo Eduardo De Filippo e anche del selvatico fratello Peppino, figli di amori segreti solo nell'ipocrisia quotidiana della grande famiglia allargata.

Si racconta della battaglia legale tra l'attore e commediografo napoletano e il vate D'Annunzio, ma l'energia, il fuoco che alimenta quest'opera sta altrove. Sta negli infiniti giochi di finzione nella vita e vita nella finzione, sta nello sguardo ipnotizzato dello spettatore che guarda avido quel che normalmente non vede a teatro: tutto ciò che succede dietro e di lato. E in questo gli sguardi di Martone indagano meravigliosamente: si appostano alle spalle degli attori, guardando verso il pubblico, si perdono nelle quinte dove i piccoli Eduardo e Titina devono fare i compiti, indugiano lungamente sui gesti e le smorfie di uno Scarpetta-Servillo che è funambolo, padre padrone, genio e guitto, mostro dagli immensi appetiti sessuali e anche di gola, generoso zio di tutti e uomo solo.

Un cinema di squisita fattura classica, di attori che sanno recitare (c'è anche il discendente, omonimo, di Scarpetta), di giochi prospettici, scene madri che uniscono il fiume soverchiante di parole (la musica del dialetto napoletano) e la chiarezza estrema dei sentimenti, dei dubbi, delle frustrazioni. La cifra esistenziale di ognuno è scritta nei volti dei bravissimi attori, nelle loro movenze, nella postura che tengono quotidianamente, come se la vita fosse un teatro di maschere, che devono sottostare all'autore-padrone Scarpetta. Puntualmente, i suoi personaggi tentano un'evasione dal ruolo imposto: la moglie Rosa difende il futuro ereditario dei figli (non proprio tutti “legittimi”), l'amante Luisa pretende di riportare a casa Peppino, il figlio Vincenzo si pone in costante dialettica tra l'adesione alle regole del padre e diversi tentativi di svecchiarle, di affacciarsi a nuove forme come il cinematografo. L'unico che abbraccia pienamente quella vita con amore e curiosità inesausti è il piccolo Eduardo, che negli occhi di Alessandro Manna mostra in nuce tutto ciò che sarà.

Eduardo Scarpetta scrive per tutti loro le parti di teatro ma anche quelle giù dal palco, in una furia autoriale-erotica che si placa solo di fronte alle parole di Benedetto Croce che confermando la sua non colpevolezza nella causa legale con D'Annunzio (la commedia Il figlio di Iorio è parodia de La figlia di Iorio, non una contraffazione) ne vorrebbe sanzionare la statura minore di farsa, rispetto al dramma dannunziano.

Guardare un Martone così è come abbuffarsi alle mense luculliane di Scarpetta: è un sentimento, un'euforia che non ha bisogno di tante architetture di trama, come un canovaccio in cui l'adesione tra attore e personaggio è tale da non richiedere un copione preciso. Ma il bello del cinema è l'intimo inganno, anche in questa sensazione di scene che si fanno da sé. Come per le commedie di Scarpetta, le battute sono calibrate minuziosamente in lunghe notti insonni, quando l'autore concepisce i suoi figli di carta e di parole squillanti. In questo senso, la sensazione di sfrenata vitalità popolare (pur nei palazzi lussuosi, la famiglia ha un respiro di semplicità comune) questa sensazione così spontanea eppure così artatamente costruita è il sintomo più grande del talento adamantino del suo autore.

Carico i commenti... con calma