Era inevitabile che la pandemia da Covid-19 esercitasse la propria influenza anche sull’arte musicale, sia sotto il profilo logistico e tecnologico sia sotto quello compositivo. Diversi i dischi scritti “in trincea” durante il lockdown, diversi i dischi registrati “a distanza”, diversi i dischi registrati in studio con misure di sicurezza e i videoclip girati con altrettante misure, diversi dischi poi sono stati scritti approfittando dello stop dell’attività live, alcune uscite sono state posticipate a causa di problemi di distribuzione… ma c’è anche chi si è lasciato ispirare dalla situazione in fase di scrittura.

Il mastermind dei Riverside Mariusz Duda, concluso il tour con la propria band si ritrova in lockdown e ottiene la giusta ispirazione per un album solista che probabilmente non avrebbe mai visto la luce altrimenti o forse avrebbe avuto connotati diversi. “Lockdown Spaces”, un titolo non certo casuale, in forma strumentale con rari inserti vocali viene rappresentato perfettamente lo stato d’animo che il confinamento comporta. È un album di musica elettronica, un’elettronica melodica con pochi suoni forti, il pensiero va subito ai Kraftwerk meno ritmati e a dei Tangerine Dream non troppo dilatati, una musica piuttosto ripetitiva ma è ciò che il contesto richiede.

A volte ci capita di domandarci se la musica sia davvero in funzione del racconto, se i suoni e le sequenze di note costituiscano davvero una trasposizione in musica di ciò che si vuole rappresentare, ed abbiamo sempre la sensazione che quella standardizzazione che la musica ha subito da diversi decenni abbia tolto parte del suo potere rappresentativo. Ma quando ascolti “Lockdown Spaces” i dubbi si dissolvono. Non saprei dire con esattezza cosa aleggiava nella testa di Mariusz e quali precisi aspetti di questa strana situazione egli volesse mettere a fuoco ma facciamo che la interpreto dal mio punto di osservazione, usando anche un po’ di fantasia.

Indubbiamente nei soli 34 minuti di questo lavoro si respira proprio quello che tutti noi abbiamo vissuto in quel difficile periodo compreso fra marzo ed aprile. Si avverte l’angoscia, la claustrofobia, il senso di incertezza sul futuro prossimo, la voglia di fuga ma anche la consapevolezza che la fuga può essere pericolosa per sé e per gli atri. La breve durata si rivela una scelta efficace, se fosse durato di più probabilmente il senso di inquietudine si sarebbe moltiplicato e avrebbe dato l’impressione di trovarsi in un tunnel senza fine.

Tutti quegli aspetti che hanno caratterizzato quel rigido lockdown sono in qualche modo riscontrabili in quelle note e in quei suoni. La pandemia è partita con ogni probabilità dalla Cina e devo dire che un mood orientale lo si avverte senz’altro, se si associa l’ascolto alle immagini di una Wuhan futuristica ma notturna e solitaria ci si accorge che l’accostamento funziona, potrebbe essere una consona colonna sonora per un eventuale documentario sulla pandemia; ma troviamo pure qualcosina che ricorda le campane tibetane, come ad esempio nella title-track, come se la meditazione fosse una via di fuga o comunque un modo per spezzare l’inquietudine. Era poi il periodo in cui ogni due per tre venivamo disturbati dal suono di un’ambulanza e quando ascoltiamo brani come “Isolated”, “Bricks” e “Pixel Heart” inconsciamente ci viene proprio da pensare alle assordanti sirene. E poi è stato il periodo, ancora ampiamente in atto, dello smart working e dei collegamenti a distanza e anche questo aspetto trova la sua rappresentazione, sembra quasi sempre di sentire dei calcolatori elettronici all’opera. Parlavamo poi di ripetitività, beh anche il ricorso a passaggi ripetitivi non sembra certo una scelta casuale, la vita in quarantena alla lunga è effettivamente ripetitiva, non consente grandi variazioni ed oscillazioni, in più il tempo sembra allungarsi e scorrere più lentamente.

Erano anni che non sentivo un lavoro così funzionale al racconto, probabilmente non lo avevo mai sentito; ripeto, non so se Duda volesse rappresentare esattamente quello che ci ho letto io, ma anche senza pensarci ci è riuscito; questo è lo spirito con cui si dovrebbe sempre comporre, ogni tassello andrebbe scelto sempre con questa cura… o forse nella musica è sempre così e semplicemente non ce ne accorgiamo?

Miglior disco del 2020? Probabilmente no, gliene ho preferiti diversi altri e non è finito nella mia top 10, non il migliore ma sicuramente il più funzionale.

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