Dispiace trattare male un musicista dal passato remoto glorioso ed importante (non per tutti, ma per molti me compreso, i suoi Grand Funk Railroad sono stati nella prima parte di carriera un grandissimo gruppo con qualità uniche). Lo storico chitarrista del trio e poi quartetto del Michigan aveva sciolto la formazione nel 1976 mettendosi in proprio, ad inizio ottanta l’aveva ricostituita per un ultimo paio di uscite discografiche ma poi era tornato a far dischi a proprio nome.
Questo lavoro qui è il quarto di carriera del Farner solista, è datato 1989 e non vale niente, a partire dalla resa fotografica dell’arancia/mappamondo immortalata (si fa per dire) in copertina, brutta di suo e pure malservita da un settaggio di luci infelice. Il titolo dell’album esorta a darsi una sveglia, ma è notte fonda su tutta la linea: un rock cellulitico, “moderato” nel senso più deteriore e vacuo del termine, pervade tutte le composizioni e le esecuzioni del nostro e mentre che si ascolta la sua inconfondibile voce, una volta stentorea e strepitosamente energica, convincente persino in quei momenti in cui Mark ne perdeva il controllo per la troppa foga e la limitata tecnica, la delusione è il sentimento dominante.
Pure le chitarre elettriche qui in azione sono del tutto spuntate, ordinarie, innocue. Nei primi anni settanta il biondo giovanotto mezzo Cherokee ci deliziava maltrattando un chitarrone fatto in alluminio e verniciato mimetico, tirando fuori un suono bombardone e tranciante, specie quando azionava un certo switch vicino alle manopole di volume e tono, che inseriva un distorsore assassino direttamente incorporato nello strumento, una diavoleria capace di generare un encomiabile frastuono fuzzoso.
A compromettere definitivamente il tutto (ma questo magari è anche dovuto al mio modo di pensare, e di considerare le religioni) ci stanno pure i testi, pervasi di devoto e radicale credo cristiano: è tutto un inneggiare a Gesù, a confidare in lui e solo in lui per risollevarsi dalle umane debolezze, per alleviare tutte le sofferenze, per vedere la luce e stare in gloria del Signore.
Caro Mark… ti preferisco da giovane, riga in mezzo e capelli lisci e biondi lunghi fino al culo, mentre che latri come una iena, scazzotti la chitarra e spingi, spingi come un ossesso, spalleggiato da una sezione ritmica tellurica come non se ne sono più viste (Don Brewer alla batteria insieme a Mel Schacher al basso sono stati pura dinamite! Ascoltarli in azione sugli album dal vivo del catalogo Grand Funk è una specie di toccasana per le proprie viscere).
‘Sto disco è ‘na chiavica, direbbero a Napoli.
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