Non ho la pretesa di essere un cinefilo sfegatato o un critico cinematografico capace di individuare le sfumature luminose della candela in un Barry Lyndon o apprezzare totalmente un film di Orson Wells; ho altresì la convinzione che però, davanti ad un'opera d'arte, qual è il cinema, non conti solamente la preparazione, ma anche la predisposizione al bello, una visione magari più emotiva e meno analitica delle cose, che possa permettere di fruire comunque del prodotto. Per questo motivo non aspettatevi una recensione che analizzi il film sotto un profilo meramente tecnico o strutturalmente perfetta.

Fatta questa doverosa premessa, sotto col film vero e proprio, uscito nel 2002 in tutto il mondo, regia di Mark Romanek ed impeccabile performance di Robin Williams, autentico mattatore del film. Il film è sostanzialmente un thriller con una grossa sezione introspettiva del personaggio principale, Sy Parrish (che qualcuno avrà notato condivide il cognome con un altro personaggio interpretato da Robin Williams, quello di Jumanji), in cui avviene però una sorta di rimescolamento dei ruoli:
Parrish è infatti fondamentalmente l'antagonista, il personaggio che comunque mette i bastoni tra le ruote ai due nettamente meno carismatici personaggi "buoni", eppure non si può sintetizzare per lui: egli è un antagonista anticonvenzionale, un debole, una persona sola ed ossessionata dal suo lavoro (sviluppa fotografie con maniacale cura in una catena di supermercati) e dai suoi clienti (dei quali sa tutto, specialmente concentrandosi sulla famiglia che appunto poi diventerà sua inconsapevole vittima), che agisce spinta dalla disperazione per la sua condizione, non per una malvagità congenita.

L'ossessività con la quale taglia, osserva, sviluppa, possiede le foto dei suoi clienti, mossa che alla lunga porterà al suo allontanamento tanto dall'amato posto di lavoro quanto dalla vita reale stessa, portandolo ad essere una semplice proiezione, un automa, è il punto focale del film, l'azione è relegata in secondo piano nella parte finale. Un tocco di classe è comunque la voce fuori campo di Williams stesso, il quale fa amare quanto veritiere riflessioni sul rapporto essere umano\macchina fotografica, sottolineando come nessuno si fotografi mai in momenti per lui tristi, come una foto sia in realtà un modo per dire "ehi, ci sono stato anch'io, anch'io sono stato felice!".

L'interpretazione è come detto superba e comunica alla perfezione il dramma interiore vissuto dal protagonista, comunicato dalle parole, ma soprattutto dai piccoli gesti, da come tenti di ingraziarsi il bambino della sua coppia di clienti "prediletta", da come cancelli da tutte le foto in suo possesso il volto del padre del bambino allorchè scopre che la sua idea di uomo che conduce una vita modello non corrisponde alla realtà. Il finale, con la comparsa della polizia e le vere e proprie scene d'azione è invece un continuo crescendo di pathos.

Poco altro da dire, se non che non si tratta comunque del classico pop-corn film da vedere in leggerezza ma con la volontà di carpirne il significato, quello che (attraverso il protagonista) ci vuol far capire, che credo sia di non chiudersi ossessivamente su qualcuno o qualcosa, ottenendo una visione della realtà distorta a discapito della nostra posizione sociale o stabilità mentale.

Quattro stellette che definirei meritate.

Carico i commenti... con calma