Ci sarà un motivo se ricordo perfettamente la prima volta che ascoltai "Echo Beach". Era metà giugno del 1980. Risparmio gli altri particolari, ma è chiaro che l'hit single tratto dal 1° LP di Martha and the Muffins, canadesi di Toronto, è uno di quei brani che hanno in qualche modo segnato la storia del "nuovo rock" e che, una volta ascoltati, difficilmente si dimenticavano, non solo per l'irresistibile linea melodica ma, soprattutto, per le sonorità inedite e particolarissime (il crescendo iniziale, le prime note di chitarra - l'effetto era forse un flanger? Non so.) brrrrr...
Il disco d'esordio, "Metro Music" era uscito nel 1979, seguìto l'anno successivo da "Trance and Dance" e da questo "This is the Ice Age" del 1981, tutti su etichetta Dindisc.
In questo terzo lavoro, oltre ad alcune mutazioni nell'organico della band, si nota la produzione di Daniel Lanois, divenuto in seguito celebre per aver prodotto diversi dischi degli impresentabili U2.
A parere di molti l'opera migliore dei canadesi, per altri una virata verso un pop di classe ma con velleità commerciali, non è difficile trovare opinioni titolate, paragoni, analisi dei suoni... già, ma che cosa si prova ascoltando questo disco?
This is the Ice Age. Questa è l'era glaciale.
La cover coglie un'immagine sfuocata di un muro malamente riparato mentre in lontananza, chiarissimo sullo sfondo luminoso, è ritratto un grattacielo; l'identica immagine è riportata sul retro copertina ma ripresa con la luce del tramonto. Paesaggi urbani di un'algida e inquietante bellezza, uno scenario pulsante viva tensione imprigionato nella staticità dei soggetti e delle forme. Il contenuto, la musica di questo disco, coglie l'analoga contraddizione costituita da composizioni multiformi, ricche a loro modo di pathos e "vissuto", imprigionate in una veste esecutiva gelida: piccole canzoni di inusitata bellezza quasi cristallizzate in una realizzazione asciutta, dalle architetture fragili ma "definitive", direi.
Come dovrebbe essere per la maggior parte dei lavori musicali, il disco va valutato nel suo insieme, a puro titolo esemplificativo ascoltiamo l'iniziale "Swimming" con inserti di chitarra dal suono quasi alla Robert Fripp che contrastano curiosamente col cantato a due e col suono di quella specie di xilofono, oppure il singolo trainante dell'LP, "Women Around the World at Work", venduta come una canzone pop, da cui, invece, l'ascoltatore attento ricaverà echi di ordinarie storie di alienazione metropolitana; la new wave raffinata unita al pathos trasmesso da "Casualties of Glass"...
Vogliamo parlare forse della title track, dove un affascinante, raggelato, ossessivo incedere vagamente orientaleggiante torna a incontrare i canoni della new wave, oppure della perla di semplicità che risponde al titolo di "One Day in Paris", dalla bellezza rara e struggente come il profumo di certe mattine limpide e fredde?
Il disco arrivò alle nostre latitudini ai primi del 1982. Un intero universo si stava sfaldando, per precipitare nel buco nero della rimozione collettiva; un mondo che si allontanava a velocità crescente non solo nel tempo, ma nelle stesse coscienze, per non essere sostituito, magicamente... da nulla.
Trent'anni dopo di quell'universo si dubita persino che sia mai esistito.
E' in queste condizioni che l'ipotetico ascoltatore d'annata incontrava dischi come questo. Avevamo pensato che la vita sarebbe stata una gran cosa, nella peggiore delle ipotesi avevamo sperato in un rogo purificatore e liberatorio, invece no, nulla di tutto questo.
Normali giornate che si succedevano una dietro l'altra, cinema, bibite e pasticcini che facevano più danni dell'eroina e eroina che si faceva chi non andava al cinema, vetri rigati dalla pioggia, il respiro greve della città, e sul piatto, ogni tanto, qualche disco da ascoltare.
This is the Ice Age.
Carico i commenti... con calma