2002: esce un disco bellissimo, forse tra i migliori del decennio. Nessuno sembra accorgersene. Il problema è che la data di nascita dell'autore recita 1983. Il problema è anche che il disco in questione mostra tra le altre cose una maturità inaspettata per un 19enne. Il problema infine è che sono passati dieci anni e altri tre lavori e Il ragazzo, ormai 29enne, rimane ai margini anche della più avveduta critica.

Martin è soprattutto (ma non solo) voce, una voce rara, una voce che dai tempi di Buckley (Tim) se ne son sentite poche, una voce che vive nelle canzoni non le canta solo.

Martin è anche anima, quella che trasuda dalle sue interpretazioni.

Paragonarlo ai Radiohead è in un certo qual senso blasfemo. Vero è che la sua musica ha raccolto una qualche influenza dal gruppo di Abingdon, ma al puro formalismo (ineccepibile) ha aggiunto sostanza, quella che è sempre mancata ad un gruppo così ampiamente acclamato (sopravvalutato).

Niente a che vedere quindi con l'autoindulgenza, qui la musica è propaggine onirica e, come spesso succede, i sogni non sono piacevoli. Meglio perdersi dunque nel falsetto di "Open Heart Zoo" o nella lentezza straripante di "Notorious".

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