Gli ascoltatori di Jazz, quelli più appassionati e collaudati, solitamente vanno alla ricerca di opere meno blasonate, meno pubblicizzate, di nicchia, sperando di trovare il capolavoro. Pare però che questo tipo di attenzione sia rivolta soprattutto al panorama jazzistico americano, non teniamo conto, ormai da troppo tempo, del fatto che anche in Italia potrebbero esserci stati degli artisti del calibro di John Coltrane o di Albert Ayler.

Ovviamente le radici culturali del nostro paese non ci permettono di avere abbondanza di talenti nell'ambito della musica afroamericana; però il caso ha voluto che a Roma, nel cuore dell'Italia, nascesse un uomo straordinario, dotato di un talento straordinario: Massimo Urbani.

Massimo Urbani era un artista strepitoso, si sentiva la reincarnazione di Charlie Parker, adorava Trane e Ayler e riusciva a sintetizzare il linguaggio dei tre artisti in modo naturale ed incredibilmente originale. Era un musicista viscerale, passionale; al sax alto aveva un urlo potente come quello di Sanders e quando suonava una ballad era in grado di commuovere gli ascoltatori.

Questo disco del 1980 è uno dei miei preferiti; lo dico perché voglio che questo scritto sia un omaggio - davvero modesto - da parte mia a questo immenso artista. Credo che nel parlare di un artista del genere, la componente personale ed emotiva sia fondamentale.

Nell''80 Massimo era tanto giovane, quanto bravo, quanto adorato; è quel tipo di artista che sa dare il meglio nell'esibizione live, ma in questo disco suona in modo davvero superlativo; merito anche degli altri elementi del quartetto.
Luigi Bonafede, al piano, riesce ad essere possente nel tocco come McCoy Tyner e dimostra di non avere nulla da invidiare a qualsiasi altro musicista a livello mondiale, nonostante sia sconosciuto ai più.  Se si continuano a fare delle analogie tra questo quartetto e quello coltraniano si nota come Furio Di Castri sia forse più pulito di Garrison, ma senza perdere l'espressività diretta che caratterizza quel modo di suonare il contrabbasso che ha avuto così tanto successo nella scena free anni '60; non mancheranno quindi i monologhi solitari del grave strumento utilizzato anche con l'archetto.
Infine Paolo Pellegatti, alla batteria, riesce a compensare la vulcanicità del solista in modo originale e con la giusta potenza.

L'album è molto vario. I due brani firmati dal leader (Dedications; Max's Mood) sono rappresentativi della maggior parte delle sue composizioni, ampio spazio è lasciato all'improvvisazione che si svolge spesso su un tappeto ritmico incandescente, i temi sono solo dei pretesti per essere lanciati in lunghi assoli.
Lo stile compositivo di Bonafede è più elaborato e ne si ha testimonianza nella lunga introduzione di L'Amore che porta fino ad un molto Coltraniano 3/4. 

La scelta da parte di Urbani dei componenti del gruppo risulta essere molto felice; ciò è testimoniato nello splendido assolo di Bonafede in Naima, che, grazie alla reiterazione di una cellula di note ''decolla'' verso il finale, dall'interplay che si crea nel duo tra Urbani e Di Castri in Scrapple From The Apple e dal groove che riesce a dare Pellegatti in Speak Low.

Nel finale gli artisti ci regalano una gran vesione di Soul Eyes, la ballad di Mal Waldron tanto amata da Trane. Urbani lascia uscire dal suo sax frasi poetiche, struggenti, con un suono incredibile, che potrebbe ricordare anche Dolphy in alcuni frangenti o anche McLean, insomma, c'è davvero di tutto nella testa di Urbani: musicisti, soli, stili.

Su Massimo Urbani si potrebbe, anzi si dovrebbe scrivere molto di più, vorrei però aver comunque stimolato la vostra curiosità.

Massimo era Parker, in tutto e per tutto è anche morto giovane come lui, per gli stessi motivi, come lui sapeva regalare emozioni uniche, per questo mi sembra doveroso scrivere:

MASSIMO LIVES!

 

Carico i commenti... con calma