Arena Santa Giuliana. Perugia. 20:00 circa. Entrano gli Young Fathers. Ballano come forsennati, cantano presumibilmente di temi forti, di temi caldi. Carisma e assalto, due bianchi e due neri, quasi tutti cantano (il batterista pesta come un matto, mentre gli altri gemono, sospirano, urlano, inveiscono). C’è molta elettronica sintetizzata, molti campionamenti. Il divertimento è alto, sia per il pubblico sia per gli artisti sul palco. Salutano dopo tre quarti d’ora di concerto.

Il meglio deve ancora venire, e si fa aspettare. Il meglio ha un nome: Massive Attack. Loro gli headliner, loro la più grande responsabilità. Si fanno aspettare: entrano sul palco alle 21:40, dopo un'attesa febbricitante del pubblico, sul quale incombono nuvoloni che promettono di aprirsi.
Horace Andy intona “Hymn of the Big Wheel” e il pubblico comincia a scaldarsi. Il secondo pezzo, quando arriva, non ha bisogno di presentazioni, e causa l’approvazione di tutti: “Risingson”, con un Robert Del Naja inconfondibile. E non può mancare certamente Grant Marshall, che, anche solo pronunciando i suoi primi versi, ammalia e conquista la fiducia del pubblico, che balla posseduto.
Il sottoscritto era in prima fila, e può assicurarvi che avere degli imponenti amplificatori a poco più di due metri di distanza è davvero provante, ma al contempo emozionante, suggestivo. In certi casi l’ugola sembrava volesse uscire dal corpo, il cuore rimaneva per qualche minuto in gola.

Dopo tre/quattro canzoni (ore 22:10 circa) il cielo, come aveva preannunciato, si apre e scrosci di pioggia inondano le teste degli spettatori. Se da una parte il concerto ha rischiato di essere funestato dalle precipitazioni atmosferiche, queste hanno anche – e soprattutto – aiutato l’adrenalina e hanno fatto scatenare di più i corpi in movimento sincronizzato alla musica.

Su un gigantesco schermo posto dietro ai musicisti informazioni su informazioni, una cascata, una fiumana di citazioni, frasi, notizie di cronaca, sia in italiano che in inglese, scelte e trasposte attraverso una sorta di intelligente cut-up, che, nell’ottica dei Massive Attack ha senso, perché concettualmente la band veicola un preciso immaginario, fatto di suggestioni noir, spionistiche, informatiche, socio-politiche, che, unite alle luci spedite allo spettatore sotto forma di flash (un epilettico a un concerto dei Massive Attack andrebbe incontro a morte certa) danno un chiaro messaggio: siamo circondati e sommersi dalle informazioni, spesso futili e non necessarie. Contemporaneamente, però, le informazioni, nella mente dei Massive Attack, sono vitali, e ognuno dovrebbe potervi accedere, tutti indiscriminatamente, il ché rappresenta un nobile concetto, a livello umanitario. Purtroppo, si intuisce che la posizione dei musicisti è smaccatamente di sinistra, e, nonostante non sfocino in apologia e in promozione di determinati partiti politici, ti fanno capire qual è la verità – la loro – a partire dalla quale bisognerebbe costruire un mondo migliore.

Il messaggio principale è quello dell’amore, anche se può non apparire così ovvio. Il sottoscritto ha come avuto la sensazione di assistere a un evento musicale-filmico, che richiama le atmosfere e i concetti Matrix-iani: un vero e proprio happening, catartico e illuminante.

Il cielo, dopo una ventina di minuti (sono le 22:30 circa), si placa, e tutti zuppi, ma euforici e “intrippati”, gli spettatori/ascoltatori rimangono connessi. Gli Young Fathers tornano sul palco, annunciati da Del Naja come “la band migliore al mondo”. Altri due pezzi, belli carichi, seppur standard, molto simili ai precedenti, e se ne vanno, lasciando di nuovo il posto ai “ragazzi di Bristol”. Quando partono i primi battiti di Angel”, l’Arena è tutta un urlo, un tripudio, accesa di magia. Un Horace Andy in stato di grazia, deliziato dalla scena, pronuncia i pochi versi del brano, e diventa, in quel momento, il Re della Serata. Con la successiva “Inertia Creeps”, la situazione si fa ancora più spinta! Altro che “moving up slowly” … il sottoscritto si dimena come un matto, totalmente partecipe, preso completamente dalla musica, da quei suoni campionati che richiamano l’Egitto, il Medio Oriente. Un pezzo di una carica incredibile, che Del Naja inizia riprendendosi con una videocamera, con distorsioni del volto, manipolato sul grande schermo. Dodicesimo brano in scaletta, “Safe From Harm” vede l’entrata trionfale della divina Deborah Miller, che incanta l’uditorio. Il bis è costituito da tre momenti: “Take It There”, la stupenda “Unfinished Sympathy”, di monumentale bellezza, e “Splitting the Atom”, brano che, anni fa, mi ha fatto conoscere la band inglese, tratto dall’ultimo album, del 2010, “Heligoland”.

Un concerto vissuto, un’esperienza irripetibile. A chi non li avesse visti, consiglio di non farsi scappare l’occasione per un’eventuale prossima puntata in Italia. Un “attacco massiccio” che insegna, in un periodo grigio come il nostro, che la musica è fatta per indurre alla riflessione, ma anche per ballare, per cantare, per incontrarsi, per condividere, per provare orgasmi collettivi attraverso l’arte.

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