Stranger Things è una serie tv da studiare, da far vedere a ripetizione agli sceneggiatori incapaci, per far comprendere loro che cosa rende interessante una storia. Non è il mostro ad attirare infatti l’attenzione dello spettatore, ma le persone che in un modo o nell’altro lo incrociano lungo la loro strada. La bellezza (o meglio il terrore) sta negli occhi di chi guarda. Gli sceneggiatori lo sanno bene e sfruttano al massimo questa strategia narrativa.

C’è infatti un’enorme disparità quantitativa tra gli episodi appartenenti al paranormale e le reazioni delle persone “normali” che ne fanno esperienza. Per assurdo, le cose strane sono quelle più chiare ed evidenti fin dall’inizio. A noi interessa vedere come faranno i personaggi a scoprire la verità, come il mostro inciderà nelle loro vite, come cambieranno i loro rapporti.

Questo parte da una constatazione non banale: fa più impressione una scazzottata tra amici (o peggio rivali) che un intero mondo oscuro, ribaltato. Perché le cose vicine alla nostra esperienza reale ci risultano più vivide, mentre l’orrore paranormale funziona solo quando si riverbera su vite normali, come la nostra.

Questa concezione molto arguta viene sfruttata in modo massimale nella serie: abbiamo tanti protagonisti, diversi e molto ben caratterizzati. Ognuno compie un percorso differente per arrivare alla verità e questo inevitabilmente incide sulla sua vita, lo porta a compiere scelte e cambiare i propri preconcetti. I diversi gruppi non comunicano quasi mai tra loro (scrivo avendo visto i primi sei episodi, per non farmi condizionare troppo dal finale) e questo permette di aprire un ventaglio di percorsi, avventurosi e conoscitivi, differenti.

Questa è la forza concettuale di Stranger Things: i personaggi sono tutto, ogni minimo dettaglio delle loro vite conta, è importante per dare forza al mistero, che mistero non è poi tanto, e soprattutto alle ombre che getta sulle vite più o meno borghesi dei numerosi protagonisti. Che sono costruiti con un ottimo dosaggio di cliché e tratti peculiari: sembrano figure bidimensionali uscite dalla tivù degli anni ottanta, ma rivelano gradualmente una profondità caratteriale diversa da quanto pronosticabile. Esemplare il ragazzino cicciottello, Dustin: fa la parte del personaggio comico per alcuni episodi, ma poi si rivela essere il più maturo del gruppo. Ognuno ha qualcosa da dire, ogni personaggio ha una sua tridimensionalità, più o meno estesa. Il mostro quindi è solo un pungolo, una vibrazione che mette in moto il potenziale (spesso inespresso) dei protagonisti di Hawkins.

C’è poi tutto un contorno estetico che cementifica il valore della serie: dalle musiche, ai richiami nerd tra fumetti, film e giochi di ruolo, all’ambientazione anni Ottanta che consente di pescare a piene mani dall’immaginario della Guerra Fredda, per non parlare dello stile nel vestire, nelle automobili e così via.

Stranger Things non ha la complessità di altri prodotti seriali, ma proprio per questo fa respirare di più. È anche relativamente semplice nella sua impostazione narrativa, ma questo non la rende semplicistica. Lo spettatore ama questo microcosmo che gli viene presentato, perché il dolore non è mai troppo lancinante e prevale sempre la speranza, la positività dei ragazzini, il coraggio di un poliziotto che va oltre gli schemi, la magia di Undi. C’è dell’ottimismo di fondo che si riverbera in ogni angolo di Hawkins, anche quando si celebra un funerale. Perché, come detto, ciò che conta davvero è lo sguardo dei protagonisti sulle cose, non tanto le cose in sé. E lo sguardo dei nostri è quello di ragazzini che pensano di fare una nuova campagna di Dungeons & Dragons o di esplorare il Bosco Atro di Tolkien.

Per far funzionare una serie, come un film, servono gli attori bravi. Tra tutti, mi ha particolarmente impressionato la prova di Millie Bobby Brown, che veste i panni della «stramba» Undici. Un viso così carismatico per una ragazzina di 13 anni promette davvero bene. Ma non ci si può davvero lamentare di nessuno in questa serie che rilancia alla grande il concetto di «opera corale».

Ora posso gustarmi gli ultimi due episodi.

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