Passare alla stesura di un romanzo forse non deve essere stato facile per Matteo Caccia, da anni conduttore radiofonico, ma è stata probabilmente un'esigenza inevitabile da dover soddisfare. Per chi non lo conoscesse ancora, l'autore si destreggia abilmente tra la conduzione di Pascal, in onda su Radio 2, e di “Don't tell my mum”, story show al Pinch di Milano, dove, appunto in entrambi i casi si raccontano storie. E se tutti presumibilmente abbiamo almeno una storia interessante da raccontare, il merito di Matteo Caccia nei suoi programmi è stato quello di aver saputo affinare il taglio giusto per raccontarla.

Il silenzio inizia quando scende per coprire le tracce di Zambo, figlio di un partigiano, che un giorno decide di partire da Genova per incamminarsi in direzione della Maremma, insieme al suo cane Tobia. La vicenda, esile e sfocata, trae ispirazione dai racconti di Pietro, figlio di Giorgio Gimelli, eroe partigiano che a vent'anni partecipò alla liberazione di Genova. Zambo ha una missione da portare a termine, e, lungo i suoi passi, si intrecciano nuovi incontri, un pallido amore, il ritrovamento di un vecchio amico. C'è un passato impegnativo da ricalcare, per questo lungo il sentiero a ritroso si procede con cautela. Si riprende fiato per raccontarne a piccoli sorsi. La vicenda degli uomini si inserisce silenziosa in questo ambiente rimasto incontaminato degli Appennini, dove ogni gesto è dettato solo dalle leggi naturali, antiche e primordiali, quelle della sopravvivenza.

Così questo viaggio è percorso seguendo la linea di confine labile e feroce che divide il nostro essere cittadini ormai “addomesticati” dalla natura selvaggia che stiamo ripudiando. Dal primo incontro nei boschi, il lupo, anche come metafora, è sempre presente, palesemente o di nascosto. I lupi stanno tornando nelle montagne e nei boschi dell'Appennino, e l'autore, che si è avvalso anche della consulenza del (WAC) Wolf Apennine Center, che si occupa anche di monitorare e di studiarne gli spostamenti, pone l'attenzione sulle criticità, ma anche sul fascino intrinseco di un animale che obbedisce al richiamo forte e ancestrale della natura.

Il romanzo è diviso in quattro parti, forse con un'accelerazione troppo brusca degli eventi verso la fine, ma tutto sommato l'autore dimostra abilmente di padroneggiare la storia, in alcune parti delle quali spicca la voce narrante in prima persona del protagonista. Le parole devono adeguarsi ai luoghi; così sono scarne e misurate, come qualsiasi racconto di montagna esigerebbe. Povera cosa rispetto al peso descrittivo che lascia il calcare con il proprio silenzio luoghi e villaggi in stato di abbandono lungo il tragitto.

C'è molto (troppo?) della natura selvaggia e dello stile crudo e tagliente di Cormac McCarthy, influenze che del resto non sono state negate dall'autore stesso. Non proprio quella che si direbbe una visione romantica e idilliaca della natura, anzi, il suo volto è feroce e spietato, in questo romanzo che all'inizio avrebbe dovuto intitolarsi “La via selvatica” e che mostra il suo profilo affilato. Ma che è anche la metà del nostro volto e che non possiamo nascondere a noi stessi

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