Esiste una schiera di pianisti-compositori che hanno molto in comune, oltre le radici jazz. Thelonious Monk, Herbie Nichols, Andrew Hill, Elmo Hope... Ognuno di loro ha dato voce al proprio mondo, un mondo spesso impenetrabile ai loro contemporanei, fatto di contrasti, spigoli, carta vetrata, schegge di note, ma anche di grande lirismo. A caratterizzare la loro scrittura, il virtuosismo ritmico e la grande originalità dei brani. Fraseggi obliqui e serpeggianti anziché lineari, grande uso di dissonanze, l'utilizzo di una tecnica pianistica non ortodossa; ad esempio si pensi a Monk che suonava a dita quasi tese anziché flesse (con tutto ciò che ne consegue: un suono e uno stile inimitabili, e la presenza di note "extra"!). A caratterizzare la loro vita, una certa dose di sfortuna, una più o meno involontaria chiusura in se stessi, la mancanza del successo di critica e di pubblico (o arrivato molto tardi, come nel caso di Monk) e quindi del successo economico. Solo presso i propri colleghi musicisti questi spiriti liberi hanno potuto godere almeno di stima e di rispetto, se non di affetto e comprensione.

Se fortunatamente oggi parte della critica musicale ha imparato la lezione che l'originalità è un pregio, e non certo un difetto, è purtroppo ancora più dilagante l'ignoranza del grande pubblico, che tuttavia si va ad arricchire di piccole nicchie di appassionati, oasi felici che consentono la sopravvivenza di alcune realtà discografiche e concertistiche bisognose di supporto. Di questa realtà fanno parte la piccola etichetta "Thirsty Ear" (letteralmente: orecchio assetato, la dice lunga) e il pianista compositore Matthew Shipp, il quale entra di diritto nella schiera di musicisti citati in precedenza, per originalità, affinità musicale e maturità artistica.

Questo bellissimo "One", piano solo del 2005, contiene 12 composizioni originali, per una durata di 40'. Leit motiv dell'album è l'universo, l'unità (one), lo spazio visto come materia e onde elettromagnetiche. Comincia la musica, misteriosa, inquietante. Sembra di essere nel buio più totale, fino all'apparire di strani fenomeni luminosi, inspiegabili. Galassie, nebulose, supernovae, buchi neri passano davanti ai nostri occhi... l'universo si mostra nella sua natura spettacolare e violenta, è tremendo e meraviglioso insieme; incute timore, fa paura. Tutto il disco sembra la colonna sonora perfetta per la rappresentazione di immagini extraterrestri, quasi di fantascienza. Ci sono dei momenti di improvvisazione totale che danno l'idea di viaggi alla velocità della luce, e passaggi dal sapore free jazz che sembrano scomporre il punto di vista dall'infinitamente grande all'infinitamente piccolo, la nostra navicella ridotta ad uno degli elettroni di un'atomo di uranio. Il settimo brano è un quasi blues evocativo e misterioso nei suoni e nel titolo: "The Encounter", l'incontro (del terzo tipo?); "Gamma Ray" è un pezzo teso ed ossessivo, molto sincopato, "Abyss Code" è imponente e scuro, "Patmos" è melodicamente subdolo e insinuante, come "Module" che fa pensare al sotterfugio, ad un tremendo segreto da nascondere. Già dopo un paio di ascolti è facile entrare in sintonia con questa strana musica, astratta e melodica insieme, piena di guizzi improvvisi e pause riflessive.

Se poi vi dovesse capitare un suo concerto solistico nelle vicinanze, CORRETE! Io l'ho visto suonare gratuitamente al Ciampino Jazz Festival, in un piccolo auditorium attrezzato dentro una scuola media, e ha suonato alla grande per quasi due ore. Ha tirato fuori anche una versione di "Summertime" che definirei malvagia, di ben 25'... da brividi, sembrava il conte Dracula al piano!

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