E se vi dicessi che ho passato due intere giornare a cacare sulla televisione, sulla mia chitarra messicana preferita, prendendo la mira dalla cima del lampadario della cucina, sul letto, rotolandomi tra le lenzuola, sul comodino e sul cordless, per poi recuperarne parte dei proventi e spalmarli sulla vetrata della terrazza - non prima di averne scagliata una buona dose ai baffuti passanti in ghingheri, giù nella mia via, ignari della mia inventiva merdoso-splatter - chiudendo epicamente l'escalation pulendomi il culo con le tende in raso del mio accogliente living room in stile inglese? Cosa pensereste? Eh? Eh? Probabilmente che sono uno scemo, come darvi torto?
Pelosi. Vediamo... Qualche dinosauro o fossile del sito probabilmente ne ricorderà soltanto "Ho fatto la cacca" - forse il suo caratteristico crescendo prog finale, oppure esclusivamente il suo titolo scolastico (e decisamente incisivo), o magari nepure quello -, quella che, almeno apparentemente, potrebbe sembrare un'eccentrica provocazione proveniente dal mirabolante mondo del trash italico; quella che con buone possibilità è la sua canzone più nota, o, se non altro, quella passata meno in sordina - e chissà perché, eh? Italiani...
Ma Mauro Pelosi era molto di più e, soprattutto, lo pseudo-nonsense emergente dallo sproloquio contenuto nella succitata cela un significato ben più recondito. Ma "Ho fatto la cacca" è un'altra storia...
Lasciatomi sfuggire l'occasione di aggiudicarmi il raro "La stagione per morire" in formato CD - tra l'altro perdendo come un discreto pollo (buon nickname non mente...) durante un'asta ebay tenutasi qualche tempo fa -, oramai scettico nei confronti dei rivenditori di sfiducia della mia città di merda, ho cercato di riscattarmi affidandomi agli scavi fognari nei meandri dell'internèt.
Fortuna ha voluto che lo ritrovassi su un fottuto sito francese, dove, non conoscendone una (1) parola che sia una (fatta esclusione per chatte, s'intende), il buon blechnrolle si è sapientemente destreggiato nel soccorrermi, servendosi delle sue sconfinate conoscenze nell'uso della lingua [...] subito dopo aver ricevuto la mia telepatica richiesta d'aiuto, in stile Gemelli nel segno del delfino (sebbene non abbia né un delfino, né un ciuffo emo - che tuttavia non sfoggerei nemmeno qualora non soffrissi di calvizie).
Insomma, la faccio breve. C'è una mosca sul monitor intanto.
Il disco del cantautore romano, datato 1972 (il disco, non il cantautore), è una sorta di concept album sul tramonto. Ci pensate?, un concept sul tramonto... che roba! Non è vero. Potrebbe trattarsi di una sorta di concept album sul tramonto di un uomo solo (?), sul suicidio o magari sul pessimismo - pessimismo che lo accompagnerà fino alla conclusiva "Suicidio".
Insomma, di certo niente di felice. Se siete assai suscettibili in questo periodo, forse sarebbe meglio posticiparne l'ascolto. Non scherzo, mi è capitato di leggere persino il seguente commento in merito a questo disco: «Mah! Sembrerà un luogo comune, ma ascoltato in un ferragosto che più piovoso non si può, con già qualche brutto pensiero in testa, nella provincia d'Italia con il più alto tasso di suicidi, rischia davvero di essere un'incitamento al gesto estremo.»
Grossomodo potrebbe essere la storia di quest'uomo che perde la propria donna, viene abbandonato, sente di aver perso tutto e, una volta lasciatosi vincere dalla tristezza e dal pessimismo, fa un resoconto della sua esistenza e si accorge (convince?) di essere proprio ciò che ha concluso nella sua vita: assolutamente nulla.
La sua perenne sconfitta, il non sapersi rialzare, il sentirsi inutile e la sua inquietudine lo catapultano poi in un circolo vizioso che lo spinge sempre più nell'abisso.
Deciderà che la stagione per morire è la primavera, perché è solo allora che può assaporare la cosa più bella: i fiori nei campi. Ma, questa volta, dopo aver atteso per tutto l'anno che ritornasse la primavera, si accorge che non è più lo stesso; questa volta, «alzarsi ogni giorno, guardarsi allo specchio e scoprire che sei solo un riflesso», soltanto per quei quattro fiori, non ne vale più la pena.
Ma andrà avanti. Continuerà a crogiolarsi nei suoi fallimenti ingigantiti a dismisura dal suo stato d'animo, fino a quando confesserà al suo amico ("Caro amico") di far la vita di chi è morto e che quei fiori nei campi, sebbene sia primavera, per lui non ci son più...
Va bene, ad esser sinceri, mi sto inventando tutto. Potrebbe non essere un album concettuale, forse solo un best of tristezza, uno schiaffo in faccia ad "Atmosphere" dei Joy Division. Magari il concetto è affrontato in maniera talmente genuina che lo stesso Pelosi non sa di averlo fatto. Non lo so, ma "Vent'anni di galera" dovrebbe essere l'hit dei cuori in franti.
Ad ogni modo, testi decisamente cupi e arrangiamenti che, sebbene non introducano nulla di straordinario, servendosi anche delle giuste orchestrazioni, conferiscono comunque le "giuste" razioni di amarezza, senso di sospensione e smarrimento alle tematiche affrontate (tristezza a palate, le chiamerebbe qualcuno).
Lo stile di Pelosi è sia scanzonato, come sarà quello successivamente celebrato dal discograficamente più fortunato Rino Gaetano ("Venderò"), che schietto e teatrale, come stava insegnando Piero Ciampi ("La stagione per morire"); ma la peculiarità che permea la sua intera produzione è senz'altro quella macabra malinconia a livelli tali da far sbiancare persino l'agonia fatta cantautore, Leonard Cohen, divenuto per l'occasione il ritratto della felicità, un mondano buontempone ("E dire che a maggio").
Genere: drammatico
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Altre recensioni
Di paolofreddie
Se io avessi quest’album in forma materiale, in cd o in vinile, esso sarebbe consumatissimo.
Ogni canzone, ogni singolo verso, parla di me. Non c’è scampo.