Se io avessi quest’album in forma materiale, in cd o in vinile, esso sarebbe consumatissimo. Non oso neanche provare a contare le volte in cui l’ho ascoltato.
Fine febbraio. No, non c’entra Mauro Pagani. Si tratta di me, dell’autore di quella che dovrebbe essere una recensione sull’esordio discografico di Mauro Pelosi, cantautore romano semisconosciuto. In parte lo è. Mi sento in dovere, ho bisogno di spiegare il valore che ha per me questo “disco” (non ce l’ho materialmente, come dicevo, e inoltre non è solo un disco, ma un’esperienza), facendo riferimento alla mia vita personale.
Fine febbraio, una stanza come un’altra, la stanza di un adolescente alle prese con la depressione. Una donna nella sua testa, ma non vicina a lui, non lì, in quella stanza da adolescente. E chiunque direbbe – se vedesse, se sapesse – che è normale, che rientra nella logica della vita lo stare male per una donna, soprattutto se si è giovani. È normale subire, vivere delle delusioni amorose o, più in generale, affettive. Ma quando hai vent’anni, quando ami una ragazza, una donna, a tal punto da voler morire, tu, maschietto medio, responsabile e allo stesso tempo vittima della tua spiccata sensibilità, non riesci a ragionare a mente fredda. E ti verrebbe da dire per giustificarti, come a suo tempo ha fatto Mauro Pelosi, mettendo le parole su nastro “Caro amico, sai cosa son vent’anni, troppo pochi per poter capire”. Mi son domandato se le canzoni che compongono questo “La Stagione per Morire” siano autobiografiche, se veramente M.P. abbia vissuto il disagio, il tormento, l’odissea di dolore interiore che mette in “luce” attraverso la sua voce. Evidente è la profonda sincerità nel canto di lui, la passione dietro ogni parola. A volte stonato, a volte delirante, Mauro Pelosi sembra lottare con i propri demoni; posseduto da un’angoscia terribile causata da un amore altrettanto terribile; destinato a soccombere sotto i colpi inferti dalla sua donna, lontana, e sotto i colpi inferti da sé stesso. L’unica cosa di cui, però, sono assolutamente sicuro è il mio dolore, il mio strazio.
Ogni canzone, ogni singolo verso, parla di me. Non c’è scampo. Un fine febbraio nel baratro, nell’occhio del ciclone. Sono a pezzi. Chi mi vedesse non mi distinguerebbe da una larva. Eppure sono io, ragazzo uomo, dilaniato, massacrato nel profondo del proprio io. Vent’anni buttati via e rendersene conto. Vent’anni di galera per me, per lei, per il mondo. Un delirio di onnipotenza cede il passo alla consapevolezza del proprio sfacelo. Ansia da prestazione, ora come allora. Mentre scrivo penso a come descrivere al meglio come mi son sentito, quel fine febbraio ormai passato, morto, ma mi rendo conto di essere profondamente disorientato. Solo ascoltare questo album mi aiuta a ricomporre il puzzle dei ricordi. Eppure, nonostante questo, non posso ancora descrivere. Descrivo tutto nella mia testa. Inoltre, non ho alcun diritto di tediare il lettore con dettagli riguardo alla mia relazione con questa ragazza, con questa donna, che ormai è diventata appunto “questa ragazza”, “questa donna”. Ormai non ha più nome, anche se sulle labbra ne rimane il dolceamaro sapore. Il suo nome come quello di un mese dell’anno, per di più appartenente alla stagione per morire scelta da Pelosi, la primavera. Non importa se non è il suo vero nome, ma un soprannome che lei ha creato in sostituzione del suo nome di battesimo, così orribile per lei, così poco attinente alla sua personalità. Per me lei è sempre stata quel mese dell’anno, quel verbo che esprime il potere.
Nove brani uno più deprimente dell’altro, uno più vero dell’altro. Vero per me. C’è la paura iniziale che sfocia in un attacco verbale violento, eppure trattenuto, in cui l’uomo, abbandonato dalla sua donna, rimasto solo, si rende conto delle tante parole, delle tante bugie di cui si è nutrito fino a consumarsi. C’è la finta risolutezza che viene espressa sotto forma di domanda, sotto forma di sfida, con un “cosa aspetti ad andar via?” che tenta di celare il profondo travaglio interiore. C’è il rimpianto, la tristezza che emerge al pensiero della vita che sarebbe potuta essere, alla vita che si progettava per entrambi. “Niente di più. Niente di più!”. C’è la resa finale, la decisione drastica: l’annullamento totale autoimposto. Mai più “far la vita di chi è morto”, quindi: suicidio. “Strade lunghe senza uscita, la mia stanza senza porta. Lasciatemi andar via … lasciatemi andar via”. Ma l’unico che alla fine lo lascerà andar via sarà lui stesso, il protagonista di questa tragedia, l’artefice di questo delirio.
Quel fine febbraio poteva essermi fatale, ma per fortuna o purtroppo l’ho superato. Il lato positivo (vedete voi) è che continuo ad ascoltare Mauro Pelosi. E ogni volta ricompongo il puzzle dei ricordi, ma non penso più ad annullarmi, perché non amo più, non voglio, non posso. Mi permetto, una volta ogni tanto, di passare una mezz’ora a rivivere il trauma, attenuato però. Non amando. Non odiando. Semplicemente ascoltando.

Voto all'album: 8/10

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