Rime semplici e dirette, produzioni quadrate e minimali dal sapore fortemente anni '90: "Book of Rhymes" rappresenta esattamente tutto quello di cui il Rap italiano NON HA bisogno in questo momento. E non perché sia un brutto disco, anzi, a tratti potrebbe risultare addirittura eccellente.
Il problema è che la maggior parte delle tracce che lo compongono sembra essere pervenuta con quindici, ma volendo anche venti, anni di ritardo rispetto alla tabella di marcia dell'evoluzione del Rap. Piaccia o meno, il flow di Maury scorre sulle strumentali che i vari Shocca, Ice One, Crazeology, Bassi e altri nomi meno noti gli forniscono, con una naturalezza e una spontaneità che hanno avuto (e hanno) pochi eguali nella storia del Rap tricolore. Ciò che però mi rende pressoché inascoltabili tre quarti buoni dell'album, è un attaccamento quasi maniacale a quella che potremmo definire "retorica del B-Boy fiero". Sopratutto nella prima parte del disco, si viene letteralmente sommersi da frasi tipo "...porto cultura e stile, le mie origini non vengono via cavo: risalgono ai giorni del vinile! Originale old school, hardcore Torino, underground, vero Hip-Hop scritto nel nostro destino..." ("Into the gate") o "...scrivo ciò che ho vissuto, ciò che ho letto e per chi ci crede ancora pace, amore e rispetto.." ("Universale"). Fermo restando che il titolare del disco è in giro da parecchi anni, e si può permettere tranquillamente d'interpretare la parte del vecchietto che tira le orecchie ai giovincelli, quello che mi chiedo è... Ma ce n'era veramente bisogno? E' opinione di chi scrive che l'Hip-Hop, inteso come movimento culturale e filosofia di vita, in Italia sia stata solo un'utopia. Perseguita in buona fede e con le migliori intenzioni magari, ma pur sempre qualcosa che all'atto pratico è risultata essere, e oggi risulta più che mai, un'ideologia priva di risvolti concreti. Tralasciando le origini del movimento, che rasentavano il fanatismo religioso (andate a leggervi lo statuto della Zulu Nation per farvene un'idea), l'impressione che si ha addentrandosi nell'ascolto del disco è che Maury non faccia che ribadire concetti triti e ritriti, celebrando un'attitudine e un modo d'intendere il Rap piuttosto inflazionati nei primi anni '90 e oggi decisamente morti e sepolti. Credo che l'aggettivo migliore per definire il disco sia: anacronistico. Ciò vale anche per l'aspetto puramente musicale: "Life is good" campiona forse per la milionesima volta "Everybody Loves the Sunshine" di Roy Ayers, ma in generale non si va mai oltre i classici beat che fanno "boom-cha-boom-boom-cha", col medesimo campione in loop dall'inizio alla fine del pezzo. Tutto finisce per sapere inevitabilmente di già sentito e risentito.
Dispiace ammetterlo, ma con dischi del genere difficilmente il Rap italiano può togliersi di dosso l'etichetta di semplice esposizione di concetti in rima, praticabile pressoché da chiunque. Anche laddove affiorano spunti più introspettivi e critici nei confronti del mondo e della società, il tutto finisce per esaurirsi nella più sterile retorica d'accatto. E spiace ancora di più quando si realizza che il propinatore di tante ovvietà è un veterano del Rap prossimo ai quarant'anni. Credo che mai come in questo momento, la scena italiana abbia bisogno di idee fresche, della voglia di non massificarsi e uniformarsi a standard che lasciano il tempo che trovano, del coraggio di osare. E dischi come questo, per quanto possano fare la gioia dei nostalgici degli anni delle jam, delle Puma coi laccioni e delle fanze, sono quanto di meno utile alla causa ci sia in circolazione.
Elenco e tracce
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