Sudore. Campi di cotone. Sudore su pelle d'ebano, chini, gli occhi di felino si sollevano furiosi sul padrone, padrone che si porta una di loro nella sua casa, la violenta, la strattona e il vestito bianco che si strappa, l'occhio che vede, viscido e sudato, il caldo che acceca, un sole giallo diventa grigio argento. Ed una donna, una mami ossuta e lucida racconta, la sera, alla luce del sole, una storia oscura, al suono dei tamburelli. Ridendo.

E' il giorno della libertà. È giorno di libertà, eppure sembra che abbiano sparato a qualcuno, che Martin Luther stia cadendo a terra sotto colpi ferali come nel vortice di "Vertigo", che sia un sogno di un pazzo delirante, immerso, sommerso ed ingoiato da una metropoli, i fiati suonando assordanti e troppo rapidi e taglienti per essere considerati solo frenetici, dipingono insieme alla batteria un quadro che pare riunchiudertisi attorno come una cella tridimensionale. Freedom day. Eppure, sembra stagliarsi una vaghissima via di fuga, da qualche parte, dopo che la batteria ha replicato il tema del pezzo, rumours flyin', they must be lyin', it's true what they say? La voce di Abbey Lincoln è esattamente quella che state immaginando nella vostra testa.

Triptych. Preferisco lasciar stare. È fatta per essere ascoltata a occhi chiusi, è fatta per farvi tremare i polsi, per richiamare alla mente anche all'uomo bianco cosa sia, in realtà il cuore dell'Africa. Goes right to the heart? No, qualcosa più in giù, alle palle, allo stomaco, alle budella. Goduria, brodo di cagna, martello degli dei. Liturgia. Delirio che pare ballo di San Vito, còrea. Morte. L'urlo di chi ha avuto la libertà, ed è stato sepolto vivo nella schiavitù, un urlo che è un richiamo di guerra. Ma anche loro, gli schiavi, un giorno risorgeranno...

Una voce di velluto, d'accordo, ma è un velluto spesso un metro buono, con qualcuno che te lo schiaffa in faccia, un po' carezza, un po' pugno, in questo Inno Africano da brividi, one nation under Max Roach's groove, che è poi il groove dei padri, che non è assolutamente groove, inteso nel significato moderno, ma è ipnosi pura, necessaria per sopportare il sangue, che state certi ancora una volta si spargerà a fiumi per deserti soltanto sognati.
Può essere fatale, questo brano, come certi riti da cui non c'è più ritorno, come certi fiumi tesi come un "serpente con la testa nel mare e (...) la coda perduta nelle profondità di quel territorio".

Apartheid. I nuovi schiavi, mandare avanti un paese e sentirsi ripudiati da esso, anzi, essere venduti, svenduti, ghettizzati, sospettati, ammazzati, resi ignoranti, e quindi deboli, concentrati come tanto piaceva ai nazisti nei bantustan. Bantù. Niente diritti. Vi immaginate? Aspettare per essere serviti in un negozio, entra un bianco e vi passa davanti, come se niente fosse. Ed è solo l'inizio... I fiati realizzano come un piano sequenza fra queste miserie, fra polvere e macchine, fra odio e sguardi, sguardi d'odio, odio, solo odio, odio ovunque. Il basso pulsa e si eleva. Verrà un giorno. Oh sì, verrà un giorno.

Che volete che vi dica? Capolavoro di quel movimento politico anti-razzista di cui il jazz si fece portatore sul finire degli anni '50, accostabile a "Free jazz" di Ornette Coleman, potente e fluido (quaranta minuti raramente sono trascorsi così velocemente) come un uppercut di un toro scatenato, con Max Roach diavolo a percuotere come solo lui poteva la sua batteria, strumento che ha trovato in questo interprete rara carica emotiva. La moglie, Abbey Lincoln, dà la prova vocale di una carriera. Coleman Hawkins e truppa fanno il resto agli ottoni.

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