"Per chi non fraintenda,

narra la leggenda

di quella gitana che pregò la Luna

bianca ed alta nel ciel".

In fondo, le tematiche fantasy e le atmosfere silvane delle elfiche Yavanna potrebbero racchiudere tutta la tristezza di questa storia d’amore e di gelosia.

Tra le orecchie a punta che la Maionchi ha preteso di levare ma che paiono contornare naturalmente qui tre dolci visi ed i loro lunghi capelli si cela un profondo amore per la musica; se “Figlio Della Luna” è uno dei brani preferiti delle tre ragazze cuneensi, vero e proprio cavallo di battaglia delle loro esibizioni, forse un motivo ci sarà.

D’accordo, trasmissione televisive nazionalpopolari spesso presentano contenuti certo non meravigliosi; ma se un programma ti permette di scoprire artisti (non per forza geniali od epocali) che possono arricchire la tua cultura musicale, perché non avere l’umiltà di confessare queste debolezze che furono catodiche ed ora sono cristalloliquefatte?

“Figlio Della Luna” è un brano dei madrileni Mecano, i quali nascono per volontà dei fratelli Cano (Nacho e Josè María) e della cantante Ana Torroja nel 1981; la Spagna allora sta vivendo i primi di quelli che saranno ricordati come gli anni della Movida Madrileña, ovverosia di quel movimento socio-culturale che prese piede nel paese iberico all’indomani della caduta del regime franchista e che vide l’esplodere di libertà e culture artistiche tra le più disparate. Tra i più famosi esponenti – spesso schierati a sinistra – o in ogni caso figli artistici di questa corrente, si ricordano personalità di primo piano anche a livello internazionale, quali ad esempio il regista Pedro Almodovar.

Non necessariamente politicamente schierati o colmi delle ideologie del movimento – e questa è una paraculata per nascondere la mia ignoranza in proposito –, per la loro carriera poco più che decennale i tre musicisti portarono avanti il loro progetto "pop", caratterizzato da brani molto eleganti, ben eseguiti dalla Torroja e permeati delle atmosfere del mondo latino. Gli arrangiamenti puntano molto su strumenti acustici, quali i fiati e le chitarre classiche, mentre le percussioni svolgono sempre il loro ruolo d’accompagnamento, senza assumere particolare visibilità nello sviluppo musicale.

Con queste premesse, non risulta complesso intuire i motivi del loro relativo successo in America Meridionale e nell’area mediterranea, tale da giustificare la riproposizione di alcuni dei loro album – tradotti parzialmente o perfino nella loro interezza – in francese ed in italiano; nella produzione in quest’ultimo idioma, in particolare, si colloca “Figlio Della Luna”.

L’album, contenente dieci brani, già pubblicati in spagnolo e tradotti ed adattati da Marco Luberti (cantautore e paroliere per artisti quali Patty Pravo e Fiorella Mannoia), l’album fu edito per il nostro mercato nel 1989.

Il titolo deriva dalla traduzione di quella che è la canzone più bella e sicuramente più famosa dei Mecano, ovverosia “Hijo De La Luna”, pubblicata tre anni prima nell’album “Entre Il Cielo Y El Suelo”.

Questo commovente brano racconta la leggenda della zingara che chiese indietro, disperata, l’uomo amato alla Luna, la quale acconsentì a patto di poter accudire personalmente il suo primo figlio.

Dimmi, Luna d’argento: come lo accudirai, se le braccia non hai?”

Alla nascita di un pargolo bianco come il latte, il marito della gitana, “scuro come il fumo” – sentendosi tradito – uccise la donna (“L’afferrò gridando, la baciò piangendo; poi la lama affondò”, disse, mentre i violini piangono straziati) ed abbandonò il figlio della Luna.

Il brano, di gran lunga il più bello dell’album, è una struggente ballata per pianoforte e percussioni; la voce della Torroja – che padroneggia molto bene l’italiano, almeno a livello canoro, è calda, avvolgente e drammatica: il vibrato che chiude le strofe riesce a toccare i tasti più reconditi dell’animo.

Spicca poi la bella “Croce Di Lame”, contenuta (come “Cruz De Navajas”) nello stesso album di “Hijo De La Luna”; è questa la triste storia di un delitto di gelosia (“croce di lame per infedeltà”) che si consuma in un ambito – quello familiare – che dovrebbe essere un rifugio sicuro.

Il brano assume una particolare connotazione malinconica nel suo incedere calmo e nel suo mescolare gli ABBA più sdolcinati (peraltro ottimi), le sigle della D’Avena negli anni d’oro ed un organetto un po’ Manzarek, un po’ “Vento caldo” di Graziani, oltre ad un sassofono, strumento “triste” per antonomasia – decisamente alla “Bold & Beautiful”; eppure è davvero molto bello.

Gli altri brani provengono invece dall’album precedente, “Descanso Dominical” del 1988; personalmente li trovo molto ben eseguiti, decisamente piacevoli, ma senza quel qualcosa in più in grado di emozionare davvero come in “Figlio Della Luna” o di creare malinconia nell’ascoltatore.

Si fanno notare, tuttavia, la particolare “Uno Di Quegli Amanti”, l’intensa “La Forza Del Destino” e la dolcissima “Fermati A Madrid” (“Io senza te mi sento nudo, comunque resto qui in città; e girerò senza il vestito, mentre pioverà.”). In pratica, meglio il primo lato.

Il secondo presenta un paio di brani non memorabili, ovverosia la lagnosetta “Vado A Nuova York” e la straniante “Cinema” (“Ma tutto a un tratto al buio tutto ripiombò, e la platea gridando forte protestò: la donna era nuda proprio quando si oscurò.”), intervallati dalla struggente “Per Lei Contro Di Lei” (che pare anticipare di un decennio circa la Pausini). Chiudono la corale e quasi heavy metal (si sente perfino la batteria!) “Un Anno Di Più”, con tanto di chitarra elettrica ed un sintetizzatore da canzone dei puffi e la (bella) strumentale “Por La Cara”, che si rifà molto ai ritmi del flamenco, prima di sfociare in un finale un po’ Branduardiano.

I tre “Mecano” (che peraltro annoverano nella loro discografia un titolo geniale quale “Lo Ùltimo De Mecano”) proseguiranno la loro carriera fino al 1992, per poi dedicarsi – eccezion fatta per una breve parentesi-reunion nel 1998 per l’album “Ana José Nacho” – alle rispettive carriere soliste, più o meno prolifiche (la più attiva parrebbe essere in questo senso la brava cantante).

Niente di trascendentale, si è detto: niente di veramente sbalorditivo o che possa pretendere un posto d’onore nella storia dell'arte; semplicemente buona musica.

Ed un brano meraviglioso che rivive grazie a tre elfe dei giorni nostri.

Mentre sorrideva, lei la supplicava: “Fa’ che torni da me!”

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