Nella primavera del 2017, durante una delle mie solite scorrerie per Soundcloud alla ricerca di nuove musichine innovative, scorrendo tra i brani suggeriti e i vari repost, incappo in una canzone di un tipo dal nome bislacco, tale Michael Carmichael. Googlandone il nome, ottengo solo un video tratto da una puntata del telefilm Chuck, in cui un tizio usa tale pseudonimo per eludere chissà quale controllo, e poi il link alla pagina Bandcamp di tale sconosciuto cantautore.

Approfondisco quindi l'ascolto, scoprendo che dietro Michael Carmichael si cela Sam Trujillo di Phoenix, Arizona: il ragazzo ha una discografia di circa una decina di lavori tra demo, EP e LP autoprodotti dal 2015, che ne attestano una discreta prolificità nella scrittura di brani originali e uno stile personale e ben definito.

L'ultimo "disco" - sebbene sia improprio definirlo così, in quanto prodotto solo in formato digitale e in audiocassetta, in un numero limitato di copie - è intitolato "To Die In Oregon" e raccoglie 8 tracce della durata complessiva di neanche un quarto d'ora, che sono tuttavia canzoni fatte e finite e non semplici bozze.
Nonostante la produzione casalinga, le sovraincisioni lo-fi con un classico multitraccia, gli arrangiamenti scarni con una manciata di strumenti (chitarra, basso e per lo più percussioni elementari, pianola e drum machine in un paio di brani), si tratta di un album semplice e di facile ascolto.
Se quanto ho scritto sopra si potrebbe pensare ad un disco di lagnette adolescenziali e registrato con una patata, già al primo ascolto c'è da ricredersi: la brevità dei brani può essere considerata un punto di debolezza, ma anche a causa della ripetitività dei riff e delle linee melodiche vocali tale brevità si trasforma in un punto di forza, permettendo ai motivi musicali di rimanere stampati nella testa dell'ascoltatore, e rendendo l'ascolto molto fluido e scorrevole senza annoiare.

I testi parlano di malinconia, senso di incompiutezza, noia prettamente giovanile che spesso si diluisce con l'erba e con l'alcool, cose che forse passano o che si spera di comprendere da grandi.
Tra i brani da ascoltare, "Forever Having Fun" è quella che mi ha colpito di più per la contrapposizione dell'allegra melodia e del testo che parla della dicotomia tra la fatica che si vive e il bene che si vorrebbe per chi si ama ("Non posso lasciarti andare, lasciare le cose come sono/ Non ho controllo né autostima/ Ma non lo mostrerò, non lascerò che mi veda così"), mentre "Feel The Same" chiude il breve album all'insegna dell'impotenza davanti al male fatto, con una sola frase: "Dopo tutto, mi sento come te. So che non sei tu quella da accusare. Ho sempre avuto questo dolore e non so se cambierò".

Sicuramente non è un album apprezzabile da tutti, ma per chi ama il cantautorato con tematiche emotive e giovanili, magari con qualità lo-fi e con arrangiamenti spogli, questo è un buon disco.

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