Chiamatelo come volete. Musicista, musichiere, musicante.  Narratore di lunghe storie o impressioni di un momento, esecutore di musiche scritte in frangenti di noia, chitarrista per piacere e non per lavoro. Ma per favore: non chiamàtelo mai CANTANTE.

Michael Chapman non si è mai sentito un cantante; un uomo di musica si, magari, ma un cantante mai. Nè ha mai preteso di esserlo considerato. Quando lui scriveva e "cantava" una "canzone" (e le virgolette non stanno lì per caso), capitava che riuscisse a metterla in discussione fin dal titolo: "No Song To Sing". Era come se al pubblico, il SUO pubblico (perché Michael Chapman non si è mai rivolto a un pubblico indistinto) dicesse: "Non aspettatevi quello che vi potreste aspettare da un altro. Io neanche volevo intraprendere questa carriera, l'ho intrapresa solo perché QUALCUNO mi ha detto che avevo talento, e che avrei potuto esprimere QUALCOSA". Ma niente canzoni. Quelle di Michael Chapman non sono canzoni, e ciò vale non soltanto per quella "No Song To Sing" che potrebbe essere il suo manifesto (se mai una simile personalità avesse bisogno di nascondersi dietro a manifesti); le sue sono semplicemente "cose in musica", cose messe lì un giorno qualunque, seduto dentro una camera scura in totale solitudine, la chitarra acustica unica compagna possibile. E musica, per lui, è metter dentro sensazioni, agire d'impulso, affidarsi all'umore. Abbandonarsi agli sbalzi emotivi, perché la musica stessa è pura emotività: e allora, che il sottofondo musicale di questi frammenti di vita sia il folk patrio ascoltato da giovane alla BBC, o il Blues dei negri sbarcato oltremanica senza diventare "british", o ancora un raga della sera rivisto e adattato, beh, tutto ciò è secondario. Almeno per lui. Ma non per chi lo riascolta oggi, dopo 40 anni, e capisce che di artisti sottovalutati come Michael Chapman ne sono esistiti pochi. Davvero pochi.

Musicista a tempo perso. Fotografo e insegnante d'arte per lavoro. Questo era Michael Chapman quando decise che sarebbe partito per il sud: da Leeds, la sua città, alla City di una Londra più che mai "Swingin'", alla fine dei '60, dove tutti andavano e si ritrovavano, perché era LI' che si sarebbe fatta la storia della nuova musica. La musica di "Rainmaker", primo impegno di un contratto con la Harvest che durerà quattro album (fino al fallimento commerciale di "Wrecked Again" e alla rescissione) è tradizione e novità allo stesso tempo. Tradizione nel materiale, novità nell'approccio. E uno stile chitarristico personalissimo, direi quasi auto-referenziale, costruito pezzo dopo pezzo in anni di gavetta da circuiti folk minori, e conoscenze prestigiose acquisite qua e là; John Peel e Davy Graham, soprattutto, quelli che lo convinsero a uscire dal buio. Uno stile unico, quasi l'anello mancante fra la tecnica rigorosa di Bert Jansch e il folk sposato col jazz di John Martyn, con punte esotiche insospettabili e una profondità/personalità d'interpretazione del Blues che non ha molto da invidiare né a Jansch né a Martyn. E quella voce matura, ruvida, di cose vissute, a tratti svogliata come se non c'avesse intenzione alcuna di cantare e qualcuno l'avesse trascinato di peso giù dal letto. Ma appunto, Michael Chapman non si è mai sentito un cantante.

...e del melodrammatico-sdolcinato cantare l'amore di altri folksingers lui se ne infischiava, semplicemente; non è mai stato uno per queste cose. Quando ti raccontava la fine di una storia, si limitava a dire "It Didn't Work Out", "non ha funzionato", senza starci a filosofeggiare troppo sopra. Essenziale, realista, cinico anche, senza perdersi in metafore o linguaggi figurati. Le cose te le dice come stanno. E te le dice, come in "No One Left To Care" al suono di un Blues che è rock pur essendo acustico, perché è dall'approccio che lo senti rock, da quelle schitarrate taglienti come lama affilata che non lasciano il posto alla maniera e alle convenzioni. O lasciando che la sua chitarra dialoghi col rumore della pioggia come nella title-track, o guardi a un'India musicalmente ormai sdoganata, o si addormenti al suono di una magistrale "Goodbye To Monday Night" - la chiusura perfetta, quella dopo la quale non c'è altro da aggiungere, quella che ti fa dire che questo disco è un capolavoro dalla prima all'ultima nota.

Gente come Dave "Clem" Clempson, Danny Thompson e Aynsley Dunbar, ovviamente, fa il resto...       

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